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Perché è valsa la pena di aspettare per anni "Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri" - Recensione

Quando inizio a scrivere una recensione ho sempre il timore di lasciarmi prendere troppo dall’entusiasmo per la musica di cui sto per parlare, tuttavia se viviamo nell’epoca in cui capita di leggere sperticate lodi dei professori della stampa e dei media all’eroico grido “Fuck Putin” del frontman dei Måneskin al Coachella (per chi se lo stesse chiedendo: sì, si svolge negli Stati Uniti, location di certo tutto meno che Putin-friendly), non vedo perché io non debba buttare in pixel su schermo tutto quello che penso davvero.


Chi di canzone politica italiana può decisamente parlare, è Pierpaolo Capovilla: 5 album tra basso e voce con gli One Dimensional Man, 4 dischi a ribaltare la scena alternativa italiana come cantante del Teatro degli Orrori, 2 lavori con i Buñuel, in quest’ultima formazione solo al basso, un numero incalcolabile di reading di poesie da Majakovskij a Pasolini fino ad opere di Emidio Paolucci, poeta attualmente detenuto nel carcere di Pescara.


Un militante, dell’arte e dell’ideologia.



Non so neanche come cominciare, potrei fare una piccola digressione su quanto la voce di Pierpaolo abbia risuonato nelle mie cuffie negli anni delle superiori, oppure su quanto il sound del Teatro degli Orrori non abbia avuto eguali nel nostro paese (tantomeno su palchi più mainstream o estremi), ma non lo farò, anche perché immagino possano bastare circa i primi 20 secondi di “Vita Mia”, prima traccia dell’album “Dell’impero delle tenebre” per capire di cosa sto parlando: provare per credere.



Al di là della cieca fiducia nei confronti di Capovilla, a foraggiare la mia personalissima immensa attesa sono stati altri due fattori, anzi, a dire il vero uno solo proveniente da due voci: una persona fidatissima che mi confessò che “Il nuovo disco non so quando uscirà, ma è un disco come in Italia non si sentiva da tempo” e questo post, poi ricondiviso sulla pagina dell’autore:



Insieme a tre musicisti d’eccezione quali Egle Sommacal (Massimo Volume) alla chitarra, Fabrizio Baioni (LEDA) alla batteria e Federico Aggio (Lucertulas) al basso, sono nate queste dieci canzoni, “Otto cazzotti e due carezze, per raccontare questi tempi di violenza e sopraffazione, il paese e il mondo in cui viviamo”, accomunate dal tema della guerra, sia essa quella che uccide i corpi o quella che ferisce il cuore:

“Ciò che si teme nel disco è ciò che si sta verificando adesso. Non è una profezia, è il terribile ordine delle cose”

“Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri”, che è anche il titolo del lavoro uscito venerdì 27 maggio per Garrincha Dischi, si può dividere in due parti: una prima più acida e quasi noise contro una seconda leggermente più lieve, senza staccarsi dal rock (che diventa addirittura metal in alcune frazioni) nemmeno per un secondo, ecosistema perfetto per la voce di Pierpaolo che canta, urla e recita con l’intensità e il tatto di sempre.



La prima traccia, nonché primo singolo estratto, è la prima mazzata. Il titolo, “Morte ai Poveri”, urlato prima che la batteria dia inizio al brano ti fa alzare la testa ancora prima che il tutto cominci per davvero. Dedicata, come dichiarato dall’autore, anche a Thomas Sankara, “Presidente Ribelle” burkinabé, è un forte grido contro il razzismo.

“Oggi pregheremo per Il sangue versato e le medaglie al petto E l’avvenire dei nostri figli Che potranno studiare I sottoderivati, i fondi di investimento Il sistema fiscale dell’Unione Europea Culla della democrazia In culo alla democrazia Morte ai poveri Io prima ti derubo E poi ti butto via”

Al grido di “Oil for food”, la Guerra del Golfo fece, si stima, due milioni di vittime fra i civili. Su una base serratissima, la seconda traccia “La Guerra del Golfo” racconta la storia di quella che poi fu definita “la prima guerra del villaggio globale”: “le risorse energetiche sono di proprietà dell’impero americano, e che nessuno si azzardi a suggerire il contrario”.

“Due milioni di morti Sto bene lo stesso Farò come Bob Dylan Seguirò Gesù Cristo O come Ferretti Il mio maschilismo”

Il riflesso interiore del conflitto esteriore è il tema di “Minutegirl”: la confessione di una giovane al proprio psichiatra e i suoi paranoici incubi di una guerra termonucleare. Siamo così sicuri che è un futuro distopico? Io che scrivo, venticinquenne, pur senza metterci la mano sul fuoco, lo spero.

“È come un colpo Un colpo al cuore E adesso nevica, nevica neve rosa Dottore, sono mesi che sogno la stessa cosa”

Siamo alla traccia numero quattro e il ritmo non ha ancora mollato neanche un BPM. Sul sistema carcerario italiano ci sarebbe tanto da dire, magari anche cadendo nella più classica retorica (per quanto si tratti di temi sensibilissimi e di fondamentale importanza). Pierpaolo sceglie di affidarsi ad un poeta attualmente detenuto nel carcere di Pescara: Emidio Paolucci. Il testo di “Dieci Anni”, infatti, è un mash up di “Allontanarsi…”, “6 paia di calzini e una poesia” e “Mia figlia e i piedi freddi”, tratte dall’opera letteraria “Finché galera non ci separi”.

“Vuoi che ti dica Che ho tradito e sono stato tradito Da tutte le donne della mia vita E ho tradito anche te”

Falcone diceva “Segui il denaro e troverai i mandanti”: nel secondo singolo estratto, i Cattivi Maestri fanno un passo verso il rock e ne esce un brano interessantissimo per linee di chitarra (con uno splendido levare nel pre-ritornello), sezione ritmica e armonia. “Follow the money” è un invito a riflettere su quanto sia semplice essere nati in questa parte del mondo.

“Forse sono io E questo maledetto muro dentro Che non mi fa vedere Non mi fa pensare Non mi fa cantare Non mi fa fa sognare E mi lascia solo Come un cane in un canile comunale Nell’attesa di un padrone nuovo Speriamo sia gentile”

L’altra (o la stessa) faccia della medaglia della canzone precedente: “Il Miserabile”, l’ansia di essere al passo con ogni scelta della vita, la frenesia del lavoro per comprarsi quell’oggetto, il primo stipendio si spende così, “non per necessità ma perché lo fanno tutti”.

“E poi, incontri un tale che ti dice Che la vita non è male Oggigiorno a Milano Corro subito a spiegarlo ad Abdul”

“Più forte che puoi” è una preghiera, un grido di disperazione di un migrante al quale manca tutto nel nostro paese. Decreto dopo decreto la nostra, già labile, solidarietà si è sgretolata, non empatizziamo nemmeno più.

“Non sarà l’ultima volta Che dovrai scappare via”

Lorenzo Orsetti è un ragazzo che è morto combattendo a fianco della milizia curda Unità di Protezione Popolare (YPG) in Siria nel corso della guerra civile siriana. “La città del sole”, allora in versione “rivisitata”, uscì già nel dicembre 2020 (in tutta sincerità già mi folgorò) in occasione di “HER DEM AMADE ME - Siamo sempre pronte, siamo sempre pronti”, la compilation proprio in onore di Lorenzo, di cui ho avuto il piacere di parlare qui. La storia di “Orso”, il suo soprannome in battaglia, è estremamente toccante, così quanto lo è stata la sua lettera di addio, alla quale questo arrangiamento delicato quanto lacerante è un omaggio profondissimo.

“Quasi quasi mi nascondo nella tua camicia Perché se ti accadesse qualche cosa Io non ce la farei E questo tu lo sai”

“Anita” è la malinconica fine di una storia d’amore, con tutto ciò che ci gira intorno e che il diktat della nostra società impone che resti uguale, un figlio, il lavoro, il nuovo uomo. Il basso fa un leggero passo indietro e lascia le chitarre, per l’occasione pulite ed arpeggianti, dialogare con la batteria, in quello che probabilmente è uno dei pezzi più belli dell’album.

“Questo paese è patriarcale La gelosia prima di tutto”

La chiusura è affidata a “Sei una cosa”: l’incubo della guerra. Non solo quella che si fa direttamente con i bombardamenti, ma anche quella degli accordi, gli accordi, ad esempio, dell’industria bellica italiana con l’Arabia Saudita, che, riportando le parole dell’autore, “del destino degli incolpevoli civili in Yemen se ne infischia bellamente. Un ritratto crudele e disperato dei nostri tempi”.

“L’hai visto quel bambino yemenita Mentre stringe forte Il cadavere del padre Sembra non crederci”

Chiudo consigliando, con tutto il cuore, di immergersi delicatamente in “Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri”, lasciandosi prendere da ogni parola di Pierpaolo e ogni battuta musicale, senza fretta.



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