Un alternative jazz "dinamico, multiforme e colorato": gli Hambone ci presentano il loro album d'esordio - Intervista
- Edoardo Previti
- 5 ore fa
- Tempo di lettura: 9 min
Lo scorso 23 maggio è uscito "Hambone", l'omonimo disco d'esordio del trio alternative jazz Hambone, pubblicato per Ciqala Records.

Nata tra le aule del conservatorio di Bari, la band è composta da Luca Giannotti, Vittorio Romano e Gilberto Bufi, tre ragazzi capaci di fondere, in maniera personale ed inedita, il jazz, atmosfere elettroniche e sperimentali, la world music e il rock.
Tutti questi elementi, uniti ad una forte vena di improvvisazione, hanno dato vita alle sette tracce di "Hambone", album in studio, registrato quasi del tutto in presa diretta presso il Sudestudio di Guagnano, Lecce, che fa da perfetto perfetto biglietto da visita per questo trio made in Puglia.
In occasione di questa interessantissima uscita, ho avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con Luca Giannotti, chitarrista della band, e di parlare sia del disco d'esordio, sia delle influenze, ascolti che hanno accompagnato la sua realizzazione, sia della nascita degli Hambone e sia dell'importanza della musica dal vivo per questo trio nato sì in conservatorio, ma che riesce ad esprimere le sue massime potenzialità soprattutto durante i suoi coinvolgenti live.
Ciao Luca, benvenuto su IndieVision. Come ti senti ora che il primo disco degli Hambone è finalmente uscito?
Innanzitutto, ciao a tutti e tutte.
Come mi sento? Mi sento sicuramente soddisfatto perché. penso di parlare al nome di tutti, siamo contenti del risultato finale del disco e anche la risposta del pubblico è mediamente molto positiva. Questa cosa ci fa molto piacere.
Noi stiamo continuando a spingere il disco, continuano ad esserci belle situazioni per proporlo e quindi speriamo che vada così per un bel po' di tempo.
Per il pubblico che vi sta conoscendo solo ora, grazie proprio al vostro ottimo esordio, volevo chiederti, come sono nati gli Hambone?
Gli Hambone sono nati nel 2021, circa, in occasione di un contest. C'è da fare un preambolo. Praticamente, io e Gilberto e Vittorio ci siamo conosciuti in conservatorio a Bari, abbiamo frequentato tutti e tre i corsi di jazz per tre anni. In questi tre anni, chiaramente, abbiamo suonato insieme in varie situazioni, circostanze, finché nel 2021 è arrivata, quasi per caso, un'occasione dove Gilberto, il batterista, doveva partecipare ad un contest e decise di chiamarci per mettere su una formazione “istantanea”.
Da lì, ci siamo trovati molto bene, vedevamo già che si poteva fare qualcosa di interessante e quindi il progetto è cresciuto. Dal 2021 abbiamo iniziato un po' a scrivere pezzi, a suonare e adesso siamo riusciti, finalmente, a concretizzare questa esperienza in un disco.
Quanto sono stati importanti gli anni del conservatorio per la tua, vostra formazione musicale?
Per me sono stati importantissimi, ma penso anche per tutti gli altri. Il conservatorio, a parte le conoscenze specifiche, le competenze che ti può dare musicalmente, a me personalmente mi ha messo in un mood diverso nei confronti del fare musica. Diciamo che è un po' come mi avesse sbloccato mentalmente, facendola diventare una cosa a tempo pieno, seria, una cosa in cui investire tanto. In conservatorio, poi, si incontrano altri musicisti, si respira 24 ore su 24 quest'aria tutta incentrata sulla musica, sul fare della musica un mestiere, un lavoro. Quindi per me il conservatorio è stato molto importante.
Nonostante vi siate formati nel 2021, il vostro album è uscito nel 2025 per via di, cito testualmente: “una rielaborazione continua, attiva e consapevole del nostro stesso materiale”. Volevo chiederti, quali sono stati gli step che vi hanno portato a dire in studio: “ok, questa canzone è finita”, mentre registravate le sette tracce del disco?
Noi, sostanzialmente, i pezzi che sono contenuti nel disco, li abbiamo suonati sin dall'inizio del progetto. Erano stati scritti più o meno nei primi anni degli Hambone e sono anni che li suoniamo dal vivo, poiché abbiamo anche avuto la fortuna di suonare tanto live, anche prima dell'uscita del disco, grazie a dei piccoli spazi in cui proporre il progetto e poi tramite un semplice passaparola con cui il progetto è riuscito a girare, nonostante non ci fosse nulla di pubblicato. Questi pezzi, chiaramente, avendo anche una forte componente improvvisativa, riuscivano ad avere una resa leggermente diversa ad ogni esibizione e per questo nel corso del tempo sono stati continuamente rielaborati, rivisti, anche naturalmente perché con il passare del tempo, le nostre inclinazioni potevano cambiare, trovavamo un'ispirazione diversa. Quello che è successo, diciamo, rispetto al disco, è stato più un mettere dei punti sulle cose che ci piacevano di più, tra tutte quelle che avevamo provato nel corso degli anni. Abbiamo fissato un po' questi paletti, in modo da non entrare in studio completamente improvvisando. Sì, c'è stato questo piccolo lavoro preliminare e poi in studio abbiamo definito tutti i dettagli, siamo riusciti a catturare, secondo noi, bene l’animo delle canzoni. In studio, l'approccio è stato comunque molto fedele al live, poiché quello che si ascolta nel disco sono tutte take fatte in presa diretta, con sole pochissime sovraincisioni. Il cuore dei pezzi, in altre parole, è tutto suonato live, suonato insieme. Anche le parti improvvisative, sono delle improvvisazioni che sono state “fotografate”, per come sono venute in quel momento.
Il disco, nonostante il nostro background jazz e improvvisativo, nelle nostre menti fin dall’inizio doveva essere godibile, doveva avere quella gestione delle tempistiche tipica dei dischi rock e pop, poiché ci sentiamo vicini anche a questi generi e anch’essi influenzano la nostra musica.
Musicalmente parlando, il vostro è un jazz sperimentale alternativo, debitore, sì, dei grandi jazzisti del passato, ma che allo stesso tempo presenta delle venature elettroniche rock e pop molto contemporanee. Quali sono stati gli ascolti o letture che hanno caratterizzato il periodo di scrittura dell'album?
Partendo un po' dal lato un po' più vicino al nostro, quindi il jazz, musica improvvisata, musica contemporanea, noi siamo stati molto influenzati da una serie di musicisti del nostro tempo, come Shabaka Hutchings, Alabaster DePlume, Nels Cline, Blake Mills, ossia un po' di quelle figure portanti a livello mondiale di quello che è il jazz oggi.
Come ti dicevo, noi affondiamo delle grosse radici anche nel rock e nel pop e quindi potrei citarti i Radiohead come influenze, anche inconscie, soprattutto nei momenti dove la combustione tra rock ed elettronica è un po' più presente. Altri ascolti che hanno accompagnato gli anni di scrittura dei brani sono i King Gizzard, i The Smile, che sono sempre una costola dei Radiohead e tutto quel fronte di rock americano, da St. Vincent ai Massive Attack. Sicuramente, non c'è stato un lavoro di reference troppo precise, ma è stata una cosa abbastanza spontanea dove ognuno ha attinto dai suoi ascolti.
Allora, oltre che musicalmente, il disco mi ha colpito fin da subito per via della sua copertina, la quale mi ha ricordato l'opera di Vincent Van Gogh “Ramo di mandorlo fiorito” ma in una versione alla Jackson Pollock, se così possiamo dire. Com'è nato questo artwork?
L'artwork è nato da una collaborazione.
Apro una parentesi, questo disco è stato un lavoro che ha coinvolto tante persone extra rispetto alla nostra. Ci tengo a citare, soprattutto, Michele Valente che è stato il fonico e il produttore diciamo del disco, la persona che ci ha seguito dalle registrazioni fino al mix e anche Danilo De Candia, un altro musicista che ci ha seguito un po' durante la produzione, Con loro facciamo squadra in varie situazioni, anche extra rispetto agli Hambone.
Tornando alla copertina, essa è il frutto di un'altra collaborazione con un nostro amico e artista, Domenico Minervini in arte Domemine. Lui dipinge mantenendo sempre questo concept floreale. Quando dovevamo scegliere un po' l'artwork, ci siamo rivolti lasciandoli quasi del tutto carta bianca. In altre parole, avevamo fatto una selezione dei suoi dipinti che più ci piacevano, dopodiché gli abbiamo passato il disco e gli abbiamo detto ascoltalo e fai quello che vuoi. Il tutto è stato un one take, poiché la prima proposta che ci ha fatto è la copertina che puoi vedere, un artwork che ci è piaciuto subito tantissimo, ci ha ispirati tanto e ci ha riconnessi, anche visivamente, con quello che voleva essere il disco.
Parlando sempre della connessione tra la musica e l'artwork. Secondo te, facendo una musica strumentale quanto è importante per il vostro gruppo riuscire a scegliere il giusto concept grafico da accompagnare alle pubblicazioni?
Sicuramente è importante. Noi veniamo culturalmente anche dà ascolti diversi da quelli del jazz e il rock ci può insegnare tanto su questo aspetto. Noi siamo molto appassionati dei concept album, di tutta la corrente progressive e non solo. Tutta la popular music è piena di esempi in cui il concept grafico è diventato parte integrante di quel disco e ha contribuito a renderlo iconico. Noi riteniamo molto importante questo aspetto, anche se con questo album noi non ci siamo dati un concept vero e proprio. Il concept è semplicemente performativo, nel senso che vuole semplicemente portare quello che è il nostro approccio musicale in maniera molto sobria, molto trasparente. Allo stesso tempo però, come hai detto tu, far accompagnare questo aspetto musicale da un concept grafico che contribuisca a ispirare un po' chi ascolta è importante.
“Biko” è stato l'unico single estratto come anticipazione dal vostro esordio, come mai avete scelto di utilizzare questa canzone come singolo?
“Biko” è stato uno degli ultimi pezzi che abbiamo scritto ed è stato anche uno di quei brani che ha subito più metamorfosi nel corso del tempo. Secondo noi, questa era la canzone che poteva fare da sintesi sonora rispetto a quello che si sente in tutto il disco. Nel senso che, in “Biko” c'è un po' tutta la parte più compositiva rispetto al mondo melodico che ci portiamo dietro, atmosfere più soffuse, un po' più esplosive nella seconda parte, qualche intervento di elettronica, il momento improvvisativo. In altre parole, c'è un po' tutto quello che è il nostro corredo. Inoltre, ci piaceva anche l'idea che, allo stesso tempo, non andasse a spoilerare in particolare qualcosa. “Biko” era il giusto pezzo per far incuriosire la gente, per far si che potessero cercare chi fossimo e cosa facessimo, ma allo stesso tempo, era il giusto brano da utilizzare come gancio per ascoltare tutto il resto, una sorta di bigliettino da visita degli Hambone.
Tra i brani che più mi hanno colpito del vostro album ci sono senza alcun dubbio le due tracce che chiudono il lavoro, “Frame Dance” e “The Ancient Plan”. Due canzoni che mi hanno rapito per via della loro forte vena sperimentale, del loro senso di improvvisazione capace di farmi captare ad ogni ascolto, elementi nuovi e sensazioni differenti, volevo chiederti come sono nate queste canzoni?
Queste canzoni, così come le altre, sono nate seguendo un approccio creativo del confronto. Ognuno di noi, in studio, proponeva delle idee in fase “embrionale”, dove c'era magari un riff, un tema con degli accordi con una struttura armonica. I due pezzi che hai citato, lì ho portati io anni fa ma in realtà, così come per tutti gli altri brani, non c'è un membro del gruppo che ha scritto/ideato più degli altri. Ad esempio, parlando di queste canzoni, io ho portato l'idea agli altri, l’abbiamo suonata, provato e poi insieme abbiamo stabilito la struttura del pezzo. Le nostre canzoni sono il frutto di un lavoro collettivo. “Frame Dance” e “The Ancient Plan” sono alcuni tra i brani che abbiamo suonato di più dal vivo prima che uscisse il disco e quindi, prima dello studio, c'è stato anche modo di farli maturare, di trovare la giusta quadra.
In altre parole, il vostro lavoro in studio non si basa su una figura che è la “mente”, che porta solo lui i brani, ma si basa un lavoro collettivo, dove entrate in studio proponete riff, giri di basso, temi ed altro e su quelli che più vi piacciono, ispirano iniziate a lavorarci tutti insieme, mescolando anche idee diverse.
Sì, noi lavoriamo con una dinamica tipica da band, differente rispetto all’idea di jazz in cui, spesso, c’è una figura che è una sorta di leader che guida il gruppo. A noi piace considerarci una band e lavorare in una maniera molto democratica, dove ognuno si sente libero di portare e proporre in studio le proprie idee.
“Hambone” oltre ad essere un disco perfetto per essere ascoltato in cuffia è, a parere mio, un album che dà il suo meglio durante le esibizioni dal vivo per via delle sue venature sperimentali e improvvisative.
Quant'è importante per voi e per la musica la dimensione dei concerti?
Io, personalmente, ti direi che i concerti per quello che facciamo sono tutto. Gli Hambone sono sì, dei tipi a cui lo studio piace tanto, siamo appassionati di quelle dinamiche, ma nonostante questo la dimensione live è una cosa a cui proprio non possiamo rinunciare. Tolto il punto di vista emotivo delle esibizioni dal vivo, momenti che ci danno adrenalina, ci caricano, ci fanno venir voglia di andare avanti, essendo una band strumentale, di musica improvvisata, per noi la dimensione dal vivo è fondamentale. Se noi siamo riusciti ad arrivare a questo punto, ossia la concretizzazione del progetto in un disco e altro, è grazie ai live che abbiamo fatto nel corso degli anni. Il fatto che avessimo già iniziato a portare in giro queste tracce, anche prima dell’idea di un disco, ci ha caricati tanto, anche grazie alle reazioni del pubblico che ci hanno spinto ad andare avanti.
Se dovessi descrivere il sound del disco con tre parole, quali sarebbero?
Allora, ti direi Dinamico, Multiforme e Colorato.
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