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"ORRIDO" dei Cólgate: un disco nato in provincia per la provincia - Intervista

Lo scorso 7 marzo è uscito per La Tempesta Dischi "ORRIDO", il primo album in studio dei Cólgate, giovane band nata nel profondo veneto e pronta a conquistare il panorama indipendente italiano con il loro sound a metà strada tra shoegaze e alternative rock.



Questo gruppo, composto da Marta, Giulio, Matteo e Andrea, all'interno delle nove urgenti tracce che compongono il disco d'esordio, canta in maniera schietta e diretta della provincia e del "bivio tra la scelta dell’innocenza dell’età adolescenziale o del cinismo della vita adulta".


In occasione di questa pubblicazione, noi di IndieVision abbiamo avuto il piacere di intervistare i Cólgate e di parlare con loro sia del loro rapporto con la provincia, sia della loro collaborazione con La Tempesta Dischi, che delle influenze, musicali e non solo, che hanno portato alla realizzazione di "ORRIDO".


 

Ciao Cólgate, come state? Come vi sentite in vista dell'uscita di “ORRIDO”, il vostro album d'esordio?

Andrea: Oggi particolarmente sotto “piogge intense”, dato che piove un po’ dappertutto, non soltanto a livello meteorologico. Per l'uscita di “ORRIDO” c'è molta trepidazione da parte di tutti. Le aspettative si stanno alzando, quindi vuol dire che anche noi dobbiamo alzare la posta in gioco. Siamo in un misto di preparazione di una festa, ma anche di recitazione, di una formula quasi cerimoniale. Bisogna essere felici, ma anche pronti, formali, organizzati.

Marta: Anche io sono molto contenta. Non mi sembra vero perché sono canzoni che suoniamo da un sacco di tempo. Quindi non vedo l'ora che anche le persone possano sentirle e darci un feedback. E avere la possibilità di far uscire un disco è una grandissima opportunità, perché noi siamo molto soddisfatti del risultato e siamo contenti di farlo arrivare a un pubblico ben più ampio di noi quattro– anche se mi mette un po’ di agitazione.

Giulio: Ciao, io sto bene e sono curioso di vedere che risposta potrà avere il materiale che abbiamo scritto nel corso di 8 anni. Speriamo piaccia e speriamo che la gente possa trovarci qualcosa di personale in quello che è stato scritto, in quello che sono le melodie e in quello che noi sentiamo.

Matteo: Sì, anch'io molto entusiasta. Ho una visione un po’ più ristretta, forse, perché io sono dentro al gruppo da quasi tre anni e quindi la maggior parte dei brani già era stati scritti ed io ho vissuto di più l'ultima parte, quando da un gioco è cominciato a diventare un pensiero fattibile e realizzabile.

 

Il vostro progetto è nato dalla provincia per la provincia? Volevo chiedervi, qual è il vostro rapporto con la provincia?

Marta: Ho sempre avuto un rapporto particolare con la provincia, perché crescendo non mi sono mai trovata a mio agio con tutto quello che offriva alle persone della mia età, classe ’99. Ho perso, purtroppo, i grandi anni di musica della nostra provincia perché, dalla fine degli anni ’90 fino ai primi del 2010, c'era una grande scena musicale che però col tempo si è un po' affievolita. Mi ricordo proprio che, quando ho conosciuto Andrea, mi ha aperto il mondo su questi eventi musicali a cui mi piaceva molto andare. Ho sempre cercato di scappare via dal mio piccolo paese anche adesso che sto a Venezia Isola, luogo un po’ più diverso dal profondo Veneto. Non tornerei mai a vivere nel mio piccolo paese, però, d’altro canto, sono veramente molto grata alla provincia perché è lì che abbiamo scritto tutto quanto. Negli ultimi 5 anni il mio rapporto con la provincia è andato a migliorare, soprattutto da quando è tornata una nuova scena musicale. Ad esempio, adesso, torno volentieri a casa perché so che dove abitiamo noi è sorto un centro dove fanno un sacco di eventi. Quindi, sono contenta che la scena si sia evoluta, però non tornerei mai a vivere in provincia. Credo di essere cresciuta troppo per accontentarmi, ho visto troppo il mondo per accontentarmi di quello che c'è lì.                                                     

Andrea: Marta ha accennato questo rapporto di allontanamento-avvicinamento e credo che tutti coloro che provengono dalla provincia lo hanno vissuto. Per me la provincia è una magia, in quanto è un luogo dove si scontrano due dimensioni. È come il backstage di un teatro, dove io so che cosa dovrò dire una volta che salgo sulla scena, so che cosa dovrò fare quando andrò nel mondo reale, ma una volta che sono in un scena è tutta un'altra storia. E il ritorno alla provincia non è un semplice tornare ed essere quelli che siamo stati prima, perché si è proprio cambiati, si è diversi.  La provincia diventa così un luogo di gioia, ma, contemporaneamente, si sente la mancanza di quello che si è conosciuto esternamente. Questo scontro tra queste due realtà genera tutte quelle coesistenze anche contraddittorie tra loro e, per me, questa coesistenza tra poli opposti è magica.

Giulio: Per me la provincia è stata come un imbuto, solo al contrario: parti dalla parte stretta fino a quella largare. L’ho sempre sentita molto stretta, specialmente per la mentalità che spesso è chiusa. Ad esempio, vengo da un contesto dove facevo skate, ma mi sono dovuto fermare perché praticamente nei dintorni non avevamo spazi. Poi, quando ho conosciuto Marta, mi sono addentrato nella cultura musicale e mi si è aperto un mondo. Mi aveva regalato una maglietta dei Joy Division e prima di vestire una maglia di un gruppo che non conoscevo, mi son detto: “Aspetto, me li vado a sentire” e da là mi si è aperto il mondo. Dopo un anno, sono andato in un negozio di musica e sono tornato a casa con un basso. La provincia, sotto questo aspetto, mi ha fatto conoscere quelli che sono i miei compagni di gruppo, uno dopo l'altro. Sentendomi stretto, però, anch'io, come Marta, sono fuggito, ma io sono proprio fuggito dal paese, trasferendomi in Portogallo. In altre parole, c'è questo rapporto di amore odio. La provincia è sempre casa, si vuole sempre tornare ogni tanto, si ha nostalgia.

Matteo: Sì, io sono d'accordo con Andrea. È vero che la provincia ti sta stretta, ma grazie a questa sensazione si è spinti ad uscire, a scoprire e a vedere cosa c’è fuori, ma, alla fine, comunque c'è sempre un desiderio di fare ritorno. In più, adesso, come diceva Marta, nella nostra zona c'era stato un problema di spazi per i giovani o per chi comunque aveva un'idea diversa ma, in questi ultimi anni, questi spazi diciamo che ce li stiamo un po’ riprendendo e quindi si sta anche un po’ meglio.  


Sì, diciamo che c'è questo rapporto di amore odio che da un lato vi spinge ad abbandonare la provincia perché vi sta stretta e volete fare nuove esperienze, ma, dall'altro è grazie alla provincia, a quello che avete vissuto in queste zone che volete sì, abbandonarla, ma anche tornarci ogni tanto.

Tutti: Certo, esatto. Se non ce ne prendiamo cura noi della provincia, non cambierà mai. 

Se non ci proviamo almeno noi, rimarrà sempre quello anche per le generazioni a seguire e quindi sentiamo una mezza responsabilità. Sì, ci lamentiamo della provincia, ma cosa facciamo di concreto? Ed eccoci qua, che per la provincia e dalla provincia facciamo la musica?


Il vostro album d'esordio uscirà per la Tempesta Dischi, una delle label più importanti della scena indipendente italiana. Come è stato lavorare con questa realtà?

Andrea: Il nostro rapporto con La Tempesta Dischi si è avviato in due processi separati: quello di registrazione, visto che abbiamo registrato il disco negli studi di Andrea Maglia, e quello poi di produzione con Enrico Molteni. Per me è una sorta di sogno, perché seguo La Tempesta da quando son nato; ho visto il mio primo concerto dei Tre Allegri Ragazzi Morti nel 2011 e dopo 15 anni sto lavorando con questa realtà. Anche qui, come in precedenza, grandi aspettative; Enrico è una persona molto coi piedi per terra e molto modesto, umile e continua a dirci: “raga, dovete impegnarvi” senza fare sconti di nessun tipo.

Giulio: In realtà, il nostro rapporto coL maglia è una cosa che va molto più indietro, risale a quando abbiamo aperto i Liquami a Largo16. Per quello che riguarda lavorare con La Tempesta è un’opportunità che ci ha fatto rendere conto e aprire gli occhi su come lavora una realtà seria, professionale. Grazie alla collaborazione con l’etichetta abbiamo capito l’importanza di preparare i materiali in modo trasfersale affinché sia tutto efficiente. Da utente che ascolta musica giornalmente, prima di entrare dentro a questo processo, non mi ero mai reso conto di tutto il lavoro che ci sta dietro e di tutto il tempo che si va ad investire. C'è tanto lavoro, tanto lavoro che è stato fatto, che c'è ancora da fare e che si farà.

Marta: Sì, secondo me, siamo stati anche molto fortunati ad avere la possibilità di collaborare con Enrico, La Tempesta e con tutte le persone che ci stanno dietro. A me spaventava tantissimo il concetto “industria musicale”, invece con La Tempesta abbiamo trovato delle persone che credono veramente al valore della musica. Stiamo facendo le cose, anche se arrivate un po' all'improvviso, non da zero a cento, ma stiamo costruendo pian piano, stiamo settorializzando bene le cose, e questo è bello perché lavorando in questo modo non perdi la direzione, secondo me.


Diciamo che La Tempesta Dischi vi ha dato i vostri tempi, vi ha dato l’opportunità di crescere pian piano.

Marta: Sì, sono sempre tempi molto stretti, perché ci viene richiesto di fare molte cose che, però, facciamo volentieri. A me piace sempre impegnarmi in cose nuove. Ad esempio, i concept album, tutti gli artisti che si creano un immaginario dietro, a me, personalmente, mi hanno sempre appassionato e quindi vedere la musica non solo come musica fine a sé stessa, ma all’interno di un'industria, tutta la parte artistica che ci sta dietro, tutta la cura per realizzare un “prodotto”, la vedo come un’arte, questo intendo dire.

Matteo: Sì, l'estrema sintesi è che è una figata.


Allora, da un punto di vista musicale, “ORRIDO” è un lavoro istintivo e sincero che deve molto alla scena shoegaze e alternative rock. Quali sono stati gli ascolti che vi hanno accompagnato durante la lavorazione del disco?

Marta: Premessa. Il disco è stato lavorato in due momenti: uno molto dilazionato nel tempo e uno durato una settimana. Per scrivere le canzoni ci sono voluti cinque anni perché, all’inizio, non c’era il progetto di fare un disco, suonavamo perché ci divertiva molto e perché non c'era tanta gente che suonava all'epoca. fare un disco, suonavamo perché ci divertiva molto e perché non c'era tanta gente che suonava all'epoca. Tra l'altro, le canzoni all'inizio erano in inglese ed erano già consolidate in un questo modo. L’altro momento è stato quando abbiamo deciso di andare a registrarle e abbiamo considerato l'idea di farle tutte in italiano. Dunque, nel corso di questo periodo, i nostri gusti musicali erano un po’ cambiati e si stava costruendo questa nuova scena musicale italiana. E abbiamo pensato: “perché non cantare in italiano? Insomma, ci sono dei bei testi in italiano”. Durante questi cinque anni, personalmente, le mie influenze sono state My Bloody Valentine, Dinosaur Junior, Pavement, Slow Dive, tutto l'Emo-Math Rock anni ‘90, quindi gli American Football, un po’ i Modern Baseball. Mentre, durante la fase di riscrittura dei testi e delle registrazioni, ho ascoltato tantissimo i Fine Before You Came e un po' Vasco Rossi. Infine, visto che volevo capire effettivamente qual era il percorso dietro tutte le band che erano state ai Bleach a registrare, me le sono riascoltate, in modo da mantenere un po’ le vibes di quel posto.

Andrea: Per quanto riguarda me, in tutti questi cinque anni gli Smashing Pumpkins sono stati un ascolto costante. In altre parole, tutto ciò che ruota attorno alla figura di Billy Corgan e di Steven Wilson. Mi hanno accompagnato, in questi anni, la scuola dei Porcupine Tree e di Steven Wilson e gli Smashing Pumpinks e, grazie a questi ascolti, mi si è creato un impasto di queste due realtà, quindi pensare alla melodia e all'armonia e allo stesso tempo buttarsi, cioè nel senso sbattersene dei tecnicismi. Oltre a queste due influenze, ho ascoltato anche tanto i Nirvana, dai quali ho preso questa idea di prendere, suonare, spaccare tutto e andare a casa, ossia di una musica molto netta, diretta. Mentre negli ultimi giorni di riscrittura e registrazione, di cui parlava Marta, stavo ascoltando tantissimo Alex G e artisti italiani che avevano registrato da Andrea – ho ripreso i Cosmetic e i Tre Allegri Ragazzi Morti. Inoltre, in quel momento ascoltavo anche la scena emo e midwest emo, ossia robe molto urlate, dove non era importante il modo di cantare o altro, ma il riuscire a far passare un messaggio.

Giulio: Come riferimenti musicali sono abbastanza affine a Marta e ad Andrea. Ma ci tengo a menzionare i New Order e i Joy Division, specialmente il basso di Peter Hook, ossia la ragione per la quale ha incominciato a suonare. Infatti, da parte mia, c'è stata molta ricerca sul suono, ho ricercato che basso suona, che effetto usa e, alla fine, sono riuscito a trovarli dopo anni e, raggiunto questo obiettivo, ho aggiunto qualcos'altro di mio per affinare e rendere più personale il mio modo di suonare il basso. Infine, un altro riferimento importantissimo per la banda che non era stato citato e che, forse, Matteo voleva dire, sono i Verdena. Oltre a questa menzione, volevo tornare a ciò che aveva detto Marta, ossia le due fasi di scrittura dei brani una durata cinque anni. La maggior parte delle canzoni erano in inglese e mentre ci trovavamo in studio di registrazione, Marta e Andrea hanno adattato, diciamo, i testi in italiano a una metrica inglese, una cosa non facile, banale e fatta nel giro di una notte è una cosa, sulla spinta anche di Maglia.

Matteo: Io, in realtà, fin da piccolo sono stato un po' plasmato da mio padre. Quindi arrivo da un background che è progressive, rock progressivo, metal, tutta roba pensata, super articolata, con arrangiamenti impossibili. Poi, negli ultimi tempi, ho sentito il bisogno di musica fatta meno di testa, ma con più cuore e quindi: i Verdena. Infine, da quando ho cominciato a suonare coi ragazzi, ho conosciuto un sacco di gruppi un po’ più underground, con cui abbiamo anche suonato insieme, come gli Stegosauro, i Post Nebbia e i Quercia, quest’ultimi hanno un posticini speciale nel mio cuore.


I temi toccati all'interno delle nove tracce del disco descrivono alla perfezione tutto ciò che si prova durante il periodo di passaggio tra la fine dell'adolescenza e l'inizio dell'età adulta. Secondo voi, quant’è importante accettare, convivere con le insicurezze che sorgono durante questo momento di transizione per riuscire a rimanere fedeli a sé stessi e ai propri ideali?

Andrea: Da sempre, anche da quando era adolescente, avevo la mentalità del tipo se io sto male, me ne sbatto della situazione formale, del bisogno di mettere la bella faccia, di sorridere, rompo l'anima, non mi presento o mi presento e me ne vado a una certa. Per sdrammatizzare, ero una sorta di Dramma Queen. Però, è proprio quello che hai appena detto tu, cioè, avevo il desiderio di rimanere fedele a me stesso e di invitare gli altri a fare uguale. Lo vedevo come una forma di ribellione, visto che all'epoca facevo il chierichetto, lo scout e, contemporaneamente, suonavo in una band metal. 

Secondo me, si possono unire tanti aspetti della propria personalità, senza per forza ammazzarne qualcun’altra. Quindi, c'è sempre stata molta rabbia nel vedere le persone che spegnevano alcuni aspetti, li moderavano, li nascondevano, insomma, sotto il tappeto. La differenza, poi, è stata quella non tanto di buttarli sotto il tappeto, ma di sapere quando usarli, farli uscire. Anche in “ORRIDO” emerge in molte tracce questa mia idea secondo cui, se nasconderai te stesso, se nasconderei delle parti di te stesso, alla fine, non la farai franca, arriverà un qualcosa che punirà il fatto che non sei te stesso. Quindi è importantissimo, non tanto accettare quelle parti di sé, ma proprio saperle usare, usarle e usarle sempre, perché sono letteralmente il nucleo di tutto ciò che siamo.

Giulio: Sì, io concordo con quello che ha detto Andrea. “ORRIDO”, anche avendo avuto un lasso di tempo abbastanza prolungato di gestazione, è cresciuto insieme a noi, a me, Marta e Andrea, nel primo periodo, ed insieme anche a Matteo, durante, diciamo, la maturazione. Nel corso degli anni, ormai sono quasi dieci, siamo cresciuti assieme, ognuno di noi è maturato, ognuno secondo la propria forma e credo che, ognuno di noi, abbia mantenuto il proprio io, il proprio se stesso, senza mai tradirsi. Sicuramente, abbiamo imparato a gestire di più quelle emozioni, come diceva Andrea, nel sapere fino a che punto essere noi stessi in determinate circostanze e quindi, siamo diventati un po’ come dei camaleonti. Rimaniamo sempre nella nostra forma, semplicemente, ci adattiamo al contesto. 

“ORRIDO” siamo noi quattro, c'è stato questo primo periodo di crescita fino alla maturazione, insieme anche a Matteo, anzi anche l'entrata di Matteo ci ha fatti maturare tanto dentro la band. Per riassumere: “ORRIDO” rispecchia quello che siamo noi e noi rispecchiamo quello che è “ORRIDO”; è la nostra seconda pelle, quello che sta sotto e abbiamo imparato quando poterla usare, fino a che punto.

Marta: Avendo fatto la prima scrittura di tutte le canzoni in questo periodo di transizione (avevo 17 anni), sono cambiata tantissimo, ma sento di aver mantenuto la me interiore. Quando ero più giovane non mi sentivo minimamente libera di fare quello che volevo, dovevo sempre tenere la bella faccia, anche quando stavo male, perché non mi sentivo legittimata ad esprimere le mie emozioni, le mie cose. Quindi, l’unico modo che avevo per essere me stessa, era la musica. Ho sempre scritto dei testi molto provocatori. Ad esempio, “asteria” l'ho scritto quando avevo 18 anni e avevo bisogno di sfogarmi. Rileggendolo adesso, forse, è un po’ l'equivalente di un testo trap, però attraverso il tipo di musica che facevo, con quel testo avevo una grandissima voglia di dire che anche se sembrava che mi andasse bene tutto, in realtà avevo una grandissima rabbia con tutti quanti e, tramite la musica mi sentivo legittimata a farlo a sfogarmi, ossia con la musica ho trovato un modo per dire le cose che volevo dire. Secondo me, è importante rimanere fedeli a se stessi, perché se tu non sei fedele a te stesso, non sei vero. Io penso che noi (cólgate) facciamo musica innanzitutto per noi stessi, perché ne abbiamo proprio bisogno; ad esempio, noi abbiamo bisogno di suonare e adesso che stiamo suonando un po' poco, perché stiamo organizzando il tutto e tutto, io sto male fisicamente perché non suoniamo più ogni settimana.

Matteo: Torniamo al discorso della provincia; in questo contesto penso si viva un po’ con le pare o con degli strati che ti fanno pensare a cosa fare, cosa non fare, alle conseguenze che arriveranno e, quindi, ti senti un po' stretto, schiacciato da questa mentalità. Magari, però, poi una sera sei a letto, guardi il soffitto e pensi: “ma se da domani faccio quello che voglio, senza farmi mille problemi)” Probabilmente, si romperanno delle cose, però forse starò meglio con me stesso.


I brani che più mi hanno colpito di “ORRIDO” sono stati senza alcun dubbio “crisma” e “chiusa”: come sono nate queste canzoni?

Andrea: “crisma”, mi ricordo, è stata originalmente una mia proposta, che poi è stata elaborata insieme ai ragazzi. Il concetto centrale non è mai cambiato dalla traduzione dall'inglese all'italiano. Questa canzone è dedicata a un tipo di persona, che ho descritto nella mia risposta precedente, ossia quelle persone che credono di poter tenere i piedi in tutte le scarpe. In questo caso, ho usato la metafora cattolica cristiana, perché calza sempre a pennello, della brava ragazza, della Laura Palmer di turno che all'esterno è pulita, precisa coccolosa, tutta casa e chiesa, ma nelle retrovie è sé stessa, ha altri pezzi nascosti.

In “crisma” c'è la dimensione della divisione dell'orrido, di queste fratture no? Questa canzone è sia una condanna di questo tipo di personae, che una rassicurazione, come si sente nel ritornello: “l'ombra del presente non ci trova, non ci troverà”. Nel senso che, non è che arriverà un momento in cui dovrai giustificare dove sei stata? Cosa hai fatto? Dove andrai o cosa vorrai fare, perché tutto si costruisce in continuazione e parlandone, discutendone, chiacchierando, interagendo, rompi sicuramente qualcosa, come direbbe Matteo. Non lo rompi solo per te stesso, rompi anche per gli altri che sono costretti a fare i conti con queste rotture. Quindi, la vera domanda è, siamo tutti sul banco del tribunale o non lo è nessuno?

Marta: “chiusa” è stata la mia prima sperimentazione con l'accordatura aperta in re. È nata proprio musicalmente, per me è stata una grande sperimentazione. Io non nasco come chitarrista, ho preso lezioni giusto un anno, ma poi ho studiato piano e quindi sono abituata ad una tastiera lineare e quindi, banalmente, scoprire delle posizioni delle dita diverse da quelle degli accordi, per me, è stata una grandissima svolta, così come scoprire Jeff Buckley. “chiusa” è stata una grande sperimentazione, proprio musicale, anche con i ritmi; infatti, avevo appena scoperto gli American Football, tra l’altro, ed eravamo io e Giulio, lui in fissa con i New Order. A dire la verità, quando ho scritto “chiusa” me l'ero immaginata completamente diversa, molto emo, molto triste ma poi è arrivato Giulio e mi ha tirato fuori sta linea di basso geniale. Quindi, “chiusa” è una canzone per me divertentissima e iconica, anche perché è stata una delle prime canzoni che abbiamo mai scritto. È carica di pathos, cioè tutt'oggi, quando la suoniamo mi gasa proprio tanto. Infine, anche Andrea ha inserito dei cambi, degli aggiustamenti che non la rendono piatta, ma una canzone con grinta, spessore e il testo, all'inizio, l'aveva scritto lui, perché è una canzone che canta lui.

Andrea : “chiusa” parlava della gelosia, ossia “il succo del diavolo”, nello specifico la gelosia maschile nei confronti di tutto ciò che riguarda il maschio e, anche nella traduzione siamo riusciti a mantenere questa idea. 

Marta: Sì, sono contenta che ti sia piaciuta “chiusa” perché è una canzone che, come ti ho accennato prima, considero molto importante sia dal punto di vista musicale, sia per via del suo testo che parla, più o meno velatamente, dell'omicidio di Giulia Cecchettin. Questo vicenda ci ha sconvolto tutti ed è successa quando stavamo registrando il disco, più o meno. Personalmente, ho partecipato a tantissime manifestazioni per ricordare Giulia e per far si che non ci sia più nessun'altra tragedia così. Quindi, in questo clima, abbiamo voluto un po’ cercare di capire com'è possibile, com'è possibile che si arrivi ad una cosa del genere, ad una tragedia simile? Ci siamo interrogati sulla brutalità di questa tragedia perché ci aveva toccato tantissimo.


In poche parole, “chiusa” è stato il vostro grido di dolore davanti a questa vicenda.

Giulio: Sì, perché, come detto, la canzone era stata scritta molti anni prima, con un testo in inglese che trattava il tema della gelosia e poi dopo, la trasposizione in italiano l’abbiamo fatta in fase di registrazione ed essendo il tema molto fresco Andrea e Marta hanno deciso di seguire questa pista.

Andrea: Volevo aggiungere che, in “chiusa”, il punto di vista non è quello di Giulia, ma quello del maltrattante, Filippo. Volevamo proprio mettere nero su bianco il casino-ordinato, non un raptus, dietro alla scelta di compiere questo atroce atto. Abbiamo provato a mettere per iscritto, come se fosse una favola macabra, alla Tim Burton, quello che è accaduto, tutte le paranoie che sicuramente hanno assalito Filippo prima e dopo aver compiuto l’atto e durante la sua fuga in giro per l'Europa. “chiusa” ha un tasto molto forte, è come se avessimo voluto essere la voce della coscienza di Filippo e per esteso di tutti coloro che pensano anche per una sola volta, pensano che un’altra persona vada chiusa, piuttosto che lasciarla libera di esprimersi, di andare, di volare, di fare quel che vuol fare.

 

Eccoci arrivati all'ultima domanda; ora che sta per uscire l'album e avete annunciato già qualche data dal vivo, volevo chiedervi: quanto sono importanti per voi i concerti? Come vivete la dimensione dei live?

Marta: Per me è come fosse sempre una festa di compleanno. Io vado lì, sono euforica fin dalla settimana prima nonostante il fatto che, abitando a Venezia Isola, devo farmi carico di mille trasferte per raggiungere i posti dove suoniamo. Nonostante queste difficoltà, però, non appena salgo in treno, faccio il ponte ed esco dalla laguna, sono gasatissima, perché mi piace sempre andare a suonare. Inoltre, quando suoniamo con altre persone, altri gruppi è veramente bello perché abbiamo la possibilità di conoscere persone nuove.  Un aspetto brutto, che spero cambi nei prossimi live e nei prossimi anni, è il fatto che sono quasi sempre l'unica femmina che suona. Ultimamente no, però mi è capitato di non essere presa sul serio, ma ho imparato a sbattermene. Infine, per me, mentre sono sul palco esistiamo solo io, Andrea, Giulio e Matteo, basta; poi, quando scendo, mi arriva tutto addosso e realizzo solo dopo cos’è successo per me.

Giulio: Suonare dal vivo penso che sia il momento in cui noi, appunto, stiamo mostrando la nostra musica. Suonare dal vivo è la quintessenza del fare musica, perché puoi effettivamente vedere gli artisti suonare davanti a te le canzoni che ascolti in cuffietta, per capire anche i loro segreti, come suonano dal vivo, etc… Per me suonare dal vivo è un momento intimo tra te e lo spettatore, ossia una persona che ha deciso di prendere, mettersi in macchina, bicicletta, qualsiasi mezzo di trasporto, e venire a dedicare un po' del suo tempo per vederti, sentirti suonare, ripagandoti del tempo che hai utilizzato per realizzare quelle canzoni. I concerti sono meravigliosi perché sono gli eventi dove riesci a raccogliere, creare il tuo bacino, dove puoi far conoscere la tua musica alle persone, le quali riescono a ricordarsi di te, perché non fanno un ascolto passivo, come accade su Spotify o altre piattaforme di streaming. Infine, suonando conosci un sacco di persone, altre band con cui suoni, nascono stori e condivisioni, a livello strumentale di equipements o anche di registrazione, appunto, come era successo con Jacopo al banchetto del merch. Sintetizzo, la musica live ci ha portato qua, a pubblicare il nostro primo album.

Matteo: Per me suonare dal vivo è fondamentale, per come sono io, grande fan dei concertini, seratina del genere. Dove riesco ad andare, vado perché vedo gente, parlo con gente, conosco con gente, mi piace e, in più, è un momento in cui occupi uno spazio e lo fai tuo. Dal lato artistico, con Marta, Andrea e Giulio o anche con altri gruppi con cui suono, io quando sono dietro la batteria godo un sacco e mi piace tantissimo.

Andrea: Per me è un momento in cui sono massimamente me stesso e per questo, improvvisamente, diventa importante tutto ciò che ci circonda. È proprio la mia vita e, quindi mi inizio a guardare intorno, guardo le facce del pubblico, mi chiedo se Marta sarà sufficientemente alta di volume, etc… Visto che son lì, improvvisamente diventa importante tutto e quindi rischio di non rilassarmi. In altre parole, mi piace molto di più partecipare ai concerti piuttosto che suonarci e se ci suono ho due mood: il mood vado dritto, faccio il mio, i ragazzi fanno il loro, siamo tutti fighi e viene uno spettacolo della madonna o il mood mi preoccupo di cosa succede attorno e presto tanta attenzione a tutto ciò che ci circonda. Suonare dal vivo è sempre un grande divertimento perché, chiaramente, rido di questi miei pensieri quando sono sul palco. I live in cui mi diverto di più sono quelli dove ho passato tutto il giorno a pensare agli altri, per lavoro, per abbigliamenti, etc… e quindi spengo il cervello e, sinceramente, penso solo a divertirmi, a suonare con i rega.



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