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Immagine del redattoreEdoardo Previti

"The Beatles: Get Back": la serie tv che racconta gli ultimi momenti in studio dei mitici Fab Four

I Beatles li conosciamo tutti. Nella nostra vita abbiamo cantato almeno una loro canzone, anche non volendo.

È però anche vero che c’è chi conosce la band di Liverpool e chi li ascolta: mentre i primi conoscono principalmente i grandi classici, i secondi sanno a memoria la discografia, quale componente ha composto i brani e date di nascita e morte dei Fab Four e dei loro congiunti. (Questo articolo è stato scritto a quattro mani quindi lasciamo a voi scoprire quale autore incarna lo spirito della Beatlemania e quale no, ndr)


Per commemorare la morte di John Lennon, oggi vogliamo dedicare a lui e ai suoi compagni questo DocuVision parlandovi di “The Beatles: Get Back”, il documentario uscito su Disney+ prodotto dai due Beatles ancora in vita (Paul McCartney e Ringo Starr), dalle rispettive compagne dei due deceduti (Yoko Ono Lennon e Olivia Harrison) e diretto da uno dei più grandi registi degli ultimi anni: Peter Jackson.

La durata dei tre episodi è degna competitor della saga de “Il Signore Degli Anelli”, i minuti complessivi di Get Back sono 470 contro i 726 della saga di Tolkien in versione estesa quindi ai deboli di vescica consigliamo poche bevande durante la visione.

The Beatles: Get Back” è la selezione di cinquantasei ore di filmati inediti risalenti al 1969 girati durante le fasi di creazione e registrazione di uno show televisivo, mai andato in onda, e di un nuovo album in studio, uscito solo nel maggio del 1970 con il nome di “Let It Be” che si concluse con il Rooftop concert, l’iconico ed ultimo concerto che i quattro baronetti tennero insieme sul tetto della Apple Corps.

Nei 470 minuti complessivi del documentario potrete ammirare tutto il processo creativo che ha portato alla scrittura di un album che è poi diventato una delle pietre miliari della storia della musica. Lo scambio dei testi, la genesi di riff storici, la calibratura delle parole nella metrica, l’accordarsi e il correggersi gli accordi per i comuni mortali è come assistere ad una magia, alla creazione di qualcosa di tanto impalpabile quanto concreto e presente nella vita di ognuno di noi. Che ci piacciano i Beatles o meno.

Assistere a questo processo riempie gli occhi di meraviglia e stupore, vedere come quattro persone, in seguito divenute cinque con il fondamentale ingresso del tastierista Billy Preston, riescano a creare qualcosa stando sedute vicine e muovendo delle corde vi assicuro che vi darà la stessa sensazione che provavate da bambinə davanti alle luci dell’albero di Natale appena acceso.

Dobbiamo però ricordarci che parliamo di esseri umani in un periodo particolare della loro carriera. Infatti, dopo il clamoroso successo di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, 1967, venne a mancare il loro storico manager Brian Epstein, l’unica figura che riusciva a tenere testa e in equilibrio l’ego dei Fab Four, soprattutto quelli di John e Paul. Ancora scottati da questa perdita e dopo aver soggiornato in India presso l'ashram Maharishi Mahesh Yogi, nel 1968 il fragile ecosistema del gruppo stava già cedendo: lo si nota bene nel celebre “White Album”, un disco registrato tra momenti di tensione ed ospiti eccezionali, come Eric Clapton, dove i Beatles più che suonare come gruppo, si servirono degli altri membri per realizzare le proprie idee musicali, canzoni. Quindi i rapporti tra i Fab Four nel gennaio del 1969, periodo in cui si collocano queste riprese, non erano proprio sereni e rilassati e ciò non dipendeva unicamente dalla presenza costante di Yoko Ono che viveva in maniera simbiotica con John ma anche dalle questioni burocratiche ed economiche riguardanti la Apple Records, etichetta fondata dai Fab Four nel 1968, dalla fin troppa maniacale precisione richiesta agli altri da McCartney e dall'esplicito malcontento di George Harrison, il quale voleva spiccare il volo e scostarsi dall’ingombrante ombra della coppia Lennon-McCartney.


In queste ore di girato vedrete e sentirete le fasi embrionali sia di alcuni pezzi, come “Something” e “Octupus’s Garden”, presenti in “Abbey Road”, il vero canto del cigno dei Fab Four, sia di alcuni celebri brani della futura carriera solista di George Harrison, “All Things Must Pass” e di John Lennon “Gimme Some Truth”.

Vedrete un insoddisfatto George Harrison dare del filo da torcere a McCartney e lasciare le prove e la band per qualche giorno, sentirete John Lennon e Paul McCartney discutere, durante i pranzi registrati di nascosto, sul futuro e sulla leadership dei Beatles e vedrete un affranto ed inerme Ringo Starr che in cuor suo era conscio dell’imminente rottura di quel gruppo di amici che partendo dai club di Liverpool e Amburgo nel giro di un decennio aveva conquistato il mondo e cambiato per sempre il modo di fare la musica pop.

Alla fine, per questo documentario del 1969, ai Beatles si era detto di dover scrivere, registrare un album e di dover organizzare uno show televisivo in meno di un mese. Nonostante i cambi di location, prima ai Twickenham Studios e poi all’Apple Corps, le diverse discussioni tra i componenti, l’esser tutto il giorno sotto l’occhio vigile delle telecamere e le pressioni discografiche che incombevano sul gruppo, i Beatles insieme a Billy Preston, amico di vecchia data che portò una leggera serenità tra i componenti, George Martin, da molti considerato il quinto beatle, e al produttore Glyn Johns, aiutato da un giovanissimo Alan Parsons, riuscirono a registrare in presa diretta, ossia come se stessero suonando dal vivo, una quindicina di canzoni e a realizzare il Rooftop concert, il loro ultimo concerto suonato sul tetto del loro studio di registrazione al numero 3 di Savile Row a Londra, che per alcuni minuti fece interrompere ogni attività lavorativa fino all’arrivo della polizia, chiamata da qualche vicino pazzo, non cosciente di star assistendo ad uno degli eventi più importanti della storia della musica.

Nonostante questo concerto, primo dal vivo dal lontano 1966, e l’apparente armonia ritrovata, queste registrazione, eccezion fatta per “Get Back” e “Don’t Let Me Down” pubblicate nel 1969 come doppio lato A su un 45 giri, non furono pubblicate fino al maggio del 1970, quando furono affidate alle mani del folle genio del “muro del suono” Phil Spector, il quale aggiunse delle sovraincisioni durante il missaggio e la post-produzione, distruggendo così la meravigliosa imperfezione rock’n’roll delle registrazioni di Glyn Johns.


Prima di questo immenso documentario realizzato dalla geniale mente di Peter Jackson, 81 minuti dei filmati vennero utilizzati dal regista che seguì passo dopo passo le registrazioni durante quell’intenso e freddo gennaio 1969, Michael Lindsay-Hogg. Egli, per motivi contrattuali con la EMI, utilizzò parte del girato per realizzare “Let It Be - Un giorno con i Beatles”, un film documentario incentrato soprattutto sul Roftoop Concert che fece vincere ai Beatles un Grammy e l’unico Premio Oscar della propria carriera alla migliore colonna sonora (adattamento con canzoni originali).


Non importa se nella diatriba Beatles/Stones tifate per la parte grezza e più rock’n’blues, guardate “The Beatles: Get Back” apprezzando il talento dei musicisti, il restauro della pellicola, i momenti di ilarità e anche le fatiche nel mettere insieme questo album pazzesco. Ridete degli ettolitri di tè che sono stati bevuti durante le registrazioni e contate le sigarette fumate, amate le camice di Ringo, gli stravaganti look di Harrison e fatevi trasportare nella Londra del 1969.


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