"Io della musica non ci ho capito niente": il nuovo album libero, caotico e sfrontato di Giulia Mei - Recensione
- Sara Curioni
- 14 apr
- Tempo di lettura: 9 min
L’immagine è questa: audizioni di X-Factor, i quattro giudici al tavolo, sul palco una tastiera e sui tasti le mani di Giulia Mei che, con top rosso laccato e capelli biondissimi, intona la sua "Bandiera". Seguono – oltre ai quattro sì e agli applausi del pubblico – settimane di ricondivisioni e commenti entusiasti che rendono virale la canzone, che in pochissimo tempo assume i contorni di un inno e rimbalza tra profili social, programmi TV e manifestazioni. È questo, si può dire, il vero punto di svolta della storia: quello che ha fatto di Giulia, fino ad allora esponente tra tanti di un cantautorato emergente che cerca gli spazi giusti per distinguersi (è del 2019 il suo primo album, "Diventeremo adulti"), un’artista sulla rampa di lancio pronta a spiccare il volo.
Così, quando qualche mese dopo Giulia approda al suo secondo album – pubblicato da Sound To Be e distribuito da ADA Music e Audioglobe – è accompagnata da aspettative alte, altissime; e non le delude. "Io della musica non ci ho capito niente" – questo, il titolo del disco – è un lavoro fresco, mosso, che prende la materia di partenza (la musica) e la plasma in modo brillante, frenetico, quasi incontrollato.
"Volevo solo fare un disco pieno di vita ordinaria, il diario di una bambina che parla di tutto senza preoccuparsi della forma, senza sovrastrutture, volevo colorare fuori dai bordi, giocare. Questo disco per me è una dichiarazione d'amore al disordine che non mi sono mai concessa per paura, a quella curiosità infantile che non mi ha mai abbandonata, a quel divergere che mi ha fatto sbagliare strada tutte le volte che ho avuto bisogno di liberarmi dalle pressioni esterne della “musica che funziona”. Ma questo disco è dedicato a chi non sa funzionare, se non coi propri unici ingranaggi, e a chi ascolta tutto come se non avesse mai ascoltato niente."

In effetti, l'idea di un lavoro sbrigliato e caotico è anticipata dallo stesso titolo, statement risolto e – quantomeno – singolare che sulla copertina del vinile campeggia a caratteri cubitali e con le lettere cambiate di posto rispetto alla giusta disposizione. Sembra, a guardarlo, uno di quei post che periodicamente ritornano sul feed di qualche social, dove un testo è riportato con alcune lettere invertite a dimostrazione di come possa essere pienamente compreso nonostante l'ordine alterato. Si tratta del fenomeno del "jumbled word effect", che spiega in termini scientifici come il nostro cervello sia perfettamente in grado di ricomporre il senso di una frase nonostante le lettere spostate, come se avessimo una sorta di T9 incorporato capace di correggere automaticamente gli errori.
Così come le lettere del titolo disposte sullo sfondo bianco della cover, anche l'alfabeto musicale che fa da spina dorsale all'album sembra subire lo stesso processo di capovolgimento e alterazione: le note del pianoforte – strumento il cui suono getta le fondamenta dell'intero lavoro – sono qua e là manipolate dagli interventi dell’elettronica, e gli arpeggi che riecheggiano la tradizione classica sono rinvigoriti dalla contemporaneità delle produzioni. Sembra, ascoltando i pezzi, che Giulia sia entrata in studio con un intento ben preciso: giocare con la musica con lo stesso spirito di una bambina che per la prima volta mette le mani sulla tastiera di un pianoforte, smantellare le convenzioni note e ricomporle secondo un ordine-disordine che venga da dentro e non sia deciso dall'esterno, lasciare che a guidare il lavoro siano la libertà espressiva e l'irregolarità. Per farlo, la cantautrice si è affidata a Ramiro Levy (un terzo del trio italo-brasiliano Selton) e Alessandro Di Sciullo, che con il loro lavoro sulla produzione hanno saputo vestire le tredici canzoni di uno spirito risoluto, dinamico, profondamente eccentrico e vitale.
Il primo e l’ultimo brano, che portano lo stesso titolo dell’album – sviluppato in una parte "I", ad introduzione del lavoro, e una parte "II", a sua conclusione – sembrano delimitare tutti gli altri come una cornice che immediatamente predisponde l'atmosfera generale, in un mix di elettronica e pianismo classico che può vantare il prezioso contributo degli archi di Rodrigo D’Erasmo. Il disco inizia non con l'armonia del suono, ma con un brusio confuso: un rumore indistinto su cui – come in una frequenza disturbata – la voce di Giulia si innesta con parole disarticolate e impastate con suoni elettronicamente distorti. Poi, dopo un minuto buono, finalmente le lettere – le stesse scombinate sulla cover del vinile – ritrovano ordine e i suoni si ricompongono in una disposizione armonica. È subito chiaro, quindi, sin dai primi istanti: non ci sono regole, non ci sono schemi; l’unico astro da seguire è la potenza liberatoria dell'inventarsi una strada propria.
"Io non lo so se faccio bene o sbaglio Io non lo so se sono peggio o meglio Io non lo so qual è il mistero da capire Se l'hanno detto stavo fuori a fumare." (da "Io della musica non ci ho capito niente I")
Conclusa l’introduzione, si entra subito nel vivo: "Libera, voglio essere libera" sono le parole che aprono "Bandiera", la canzone che qualche mese fa ha folgorato moltissimi per la sua capacità di trattare con credibilità e franchezza un argomento urgentissimo, ma schivando perfettamente il rischio – sempre dietro l'angolo, quando si toccano certe questioni – della superficialità e della strumentalizzazione del tema. Il grido pieno di rabbia e di libertà lanciato da questo brano – ormai diventato un inno femminista, per molte e molti – qui va a porre l’attenzione sulle molteplici sfaccettature di una lotta in cui, da donna, è impossibile non riconoscersi: con uno stile sincero e personale, Giulia fa riferimento ai giudizi paternalistici subiti, al fenomeno (ahinoi diffuso) del victim blaming, alle molestie (più o meno evidenti) che sono all’ordine del giorno e che troppo spesso vengono sminuite con un "ma che vuoi che sia". In particolare, qui come altrove nell'album, è forte il riferimento al rapporto con il proprio corpo, che trova espressione nella volontà esplicitata di vivere liberamente e senza giudizi esterni la propria sessualità e femminilità. E infatti dice Giulia, relativamente al brano e ai suoi contenuti: "Io voglio solo una libertà che mi accompagni sotto casa, che mi faccia sentire così orgogliosa della mia fica da portarmela addosso come una bandiera, una cazzo di bandiera che faccia luce in mezzo al buio più totale".
L’attenzione per il presente e per ciò che le sta intorno – ereditata probabilmente da quel cantautorato di scuola genovese a cui Giulia deve buona parte della propria formazione artistica – ritorna altre volte, come nel caso di "Un tu scuiddari". In questo brano, il cui titolo rivela la provenienza palermitana dell’artista, Mei decide di accompagnarsi ad un’altra validissima esponente di quella nuova scena cantautorale meritevole di attenzione e ascolto: Anna Castiglia (a pochi mesi dal suo esordio discografico, che avevamo recensito qui). Insieme, le due propongono un brano dove al centro ci siamo tutti, quando ci affanniamo per ottenere l’approvazione altrui o scappare dai giudizi esterni, ma anche quando ci concentriamo solo sull’immagine riflessa nello specchio per non guardare la distruzione che ci circonda e il malessere altrui. Non è un puntare il dito dall’alto del proprio piedistallo, però: siamo tutti un po’ ipocriti, tutti un po’ stronzi; ci sono un po’ di mostruosità e di individualismo ad accomunarci tutti, ogni volta in cui ci mostriamo indolenti all’idea di fare la nostra parte per cambiare le cose.
"Siamo i soliti imbroglioni Siamo quello che conviene Siamo meri mercenari Siamo solo dei bambini Che non vogliono giocare Coi giocattoli di quelli Seppelliti in fondo al mare Siamo ipocriti per scelta Nullità per vocazione Siamo tutto ciò che serve Per la non rivoluzione." (da "Un tu scuiddari")
Ampio spazio, nella tracklist del disco, è dedicato anche al mondo dei sentimenti e dell’interiorità, che trova sfogo in diversi episodi in cui sono messe a fuoco le varie sfaccettature del diventare adulti. Se in "Drammaturgia" si parla della mancanza di sincerità nelle relazioni e della frustrazione dell'avere a che fare con chi non fa che ferire l'altro a colpi di bugie ("Cristo, come menti bene / ci ho creduto anch'io / almeno per un po'"), in "Cara allegria" – che vede la collaborazione della voce antica ed elegante di un’altra cantautrice, la romana Mille – l’interlocutore è il più gioioso dei sentimenti: alla spensieratezza dei giorni felici le due artiste si rivolgono supplicandola di tornare e di non farsi corrodere dalle preoccupazioni e dalla malinconia. Restando ancorati all'interiorità del tempo presente, "H&M" mette in luce alcuni tra i sentimenti più tipici dell’avere trent’anni oggi: lo sconforto di non aver raggiunto gli obiettivi che ci si era prefissati, il dubbio di non aver trovato ancora una direzione definita, il peso delle aspettative proprie e altrui, la paura del fallimento.
"Non faccio guarire nessuna ferita, mi stacco la crosta Ho fatto per anni la cosa sbagliata per essere giusta. Cara allegria, proteggiti da me Dai miei sbalzi d'umore, Da tutte le parole d'amore Di un vecchio dolore che ritorna, Cara allegria, aiutati da te Che questa specie di malinconia Non ci somiglia neanche un po'." (da "Cara allegria")
Tra i temi più frequentati dalla cantautrice c’è quello legato all’infanzia che, oltre a tornare continuamente nell'approccio puerile di scoperta e gioco (di cui si diceva sopra), è esplicitamente indagato in almeno tre brani. "Genitori" è l’episodio in cui una figlia ormai trentenne continua a sentirsi la stessa bambina con il cuore che scoppia nel petto ogni volta in cui si ritrova ad assistere alle discussioni tra i propri genitori, ma comprende – aiutata, ora, dalle consapevolezze dell’età adulta – che padri e madri sono fallibili quanto qualsiasi altro essere umano, e che per questo vanno perdonati nei loro errori (che sono, poi, gli stessi che faremo anche noi). Una sfera ancora più intima è quella tratteggiata in "Mio padre che non esiste", dove la situazione cantata è talmente privata che, nell’ascoltarla, la commozione per il sentimento descritto – l'accettazione di un’assenza la cui realtà rimane tangibile solo nel ricordo – si somma al sentirsi di troppo al cospetto di una storia che non ci riguarda. Ciò che più emoziona e soprende in questi brani è, oltre alla delicatezza puntuale con cui le tematiche sono toccate, il punto di vista della narrazione: se le immagini che si posano sulle melodie leggere ("Facciamo un girotondo [...]") rimandano alla tenerezza dell'infanzia, così la voce di Mei – qui distante dalla combattività e fermezza di cui è capace – si riappropria di una fanciullezza e di una purezza che impregnano di forza emozionale e credibilità il racconto.
A chiudere questa ideale trilogia è "Ȃ picciridda mia", posta appena prima della conclusione dell’album: nella canzone (l'unica in dialetto palermitano), la cantautrice si rivolge idealmente alla se stessa bambina e, al contempo, alla parte più fanciullesca che tuttora affiora nella sua vita adulta. Ancora una volta, il tono adottato è quello della delicatezza, grazie alla più morbida delle melodie che sembra sussurrare, come in una dolcissima canzone della buonanotte: "non ci pensare, non è colpa tua".
"Vorrei avere il cuore un po' più forte, più incolumità Per non lasciarmi prendere dal panico, che poi a quest'età Trent'anni e non avere mai schivato i vostri errori Trent'anni e non avere mai capito che in fondo siete solo genitori. Qualcuno chiami un'ambulanza ogni volta che parliamo Mi pare sempre che mi scoppi il cuore, vorrei sputarlo in una mano E puntualmente mi accorgo che non è cambiato niente da allora Io sono sempre una bambina triste Che piange per la gente che non vuole salvarsi da sola. E vi dovrei perdonare, mi dovrei perdonare ma ogni volta arrivo tardi E faccio prima a fare le valigie e a salutarvi" (da "Genitori")
Di tutt'altro sapore è "La vita è brutta", l'ultimo tra i tre singoli (dopo "Bandiera" e "H&M") usciti ad anticipazione del disco. L'episodio, che arriva più o meno alla metà dell'ascolto, risuona come un manifesto a caratteri cubitali di ciò che la sua autrice vuole comunicare, e appare forse come il brano maggiormente rappresentativo dell'intero lavoro: dentro sono condensati tutto il mondo musicale e ideale di cui l'album è intriso, dal rigore degli arpeggi pianistici al ballo smodato e disinibito. La definizione migliore del pezzo è quella che ne dà Giulia stessa, quando dice che la canzone "è allo stesso tempo un cuore e un culo, minimal e barocca, una partita di Bach e un rave party, un principe azzurro e un orsetto gommoso, una scopata e un funerale".
Musicalmente, come si è visto, l’intero sound dell’album ruota intorno alla centralità del pianoforte, strumento che l’artista ha studiato sin dall’età di nove anni e perfezionato durante il percorso in Conservatorio. Il timbro nitido e martellante dei tasti bianchi e neri è la struttura portante di buona parte dei brani, che lascia qua e là spazio ad una maggior morbidezza del suono, ma rimanendo sempre il maggior interlocutore del cantato.
La rilevanza dell’aspetto puramente sonoro è tale che, nell’album, sono due le tracce interamente strumentali: "A casa mi veniva" è in tutto e per tutto un brano pianistico, il cui effetto immediato è di riportare in tempo zero (basterebbe il titolo) ogni (ex)studente di musica davanti alla porta dell’aula di strumento poco prima l'inizio della lezione, con la tensione nel petto e le dita – adesso strette attorno alla maniglia – che sembrano intorpidirsi al solo pensiero di quel Preludio di Bach che l'insegnante vorrà sicuramente ascoltare. All’opposto, in "Mozrat" il suono del pianoforte è confuso e nascosto dietro a strati di elettronica che lo mutano distorcendolo e trasformandolo in qualcos'altro: il pezzo, che nel titolo ripresenta le stesse lettere disordinate della copertina, è un omaggio scombinato e trasgressivo al compositore viennese che, forse, trasgressivo lo era davvero e che – fosse in vita oggi – troveremmo probabilmente a danzare ubriaco al centro di una pista da ballo.
È questa, forse, la sintesi migliore del nuovo lavoro di Giulia Mei: lo studio attentissimo delle regole, la padronanza della tecnica pianistica e i riferimenti classici sono punto di partenza solido e imprescindibile per disobbedire alle regole, alterare il suono con il sapiente uso dell’elettronica, innestare i modelli con testi originali e contemporanei, adottare un approccio plastico e disinvolto alla musica che riesce a dare vita ad episodi imprevedibili e inattesi (e che dell'inatteso e dell'imprevedibile fa una stella da seguire, come rivela la piccola sorpresa nascosta negli ultimi giri della puntina del vinile).
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