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Visconti e il suo "DPCM", una penna ermetica per musica senza mezzi termini - Intervista

Se siete in cerca di musica di un certo livello di complessità e che sia mentalmente stimolante siete nell'articolo giusto. In questo freddo primo giorno della settimana vi presentiamo "DPCM" (Dischi sotterranei), l'album d'esordio di Visconti, giovane cantautore piemontese che prende spunto dalla vita in un piccolo comune italiano per evadere, perdersi e ritrovarsi in un luogo più maturo fatto di connessioni logiche, ironie sottili e canzoni graffianti senza riserve.

Sette tracce interamente scritte, composte e suonate da Visconti, che si articolano su più temi, dal rapporto con le religioni alla corruzione morale, scritte con ironia pungente a volte velata ed ermetica altre volte spavalda senza mezzi termini.

Il disco si apre con "La morte a Venezia" che gioca con le liriche come nei migliori pezzi di Battiato: partendo dall’omonimo libro di Thomas Mann, il cantautore si domanda: quanto spesso ci appropriamo di soggetti culturali per descrivere noi stessi agli altri? Passiamo poi a brani come "Poeti", "DPCM" e "Nulla mi urterebbe di più", che guardano al rapporto con gli altri e alla spiritualità a volte mancante a volte eccessiva. C'è anche il tema della difficoltà nel riuscire ad avere un buon rapporto con noi stessi in "Narcisi sbagliati" e della decadenza delle province in "Ammorbidente". Alcuni brani sono avvolti da sound più arrabbiati e decisi, altri meno, con tante contaminazioni culturali e rimandi cantautorali. Un disco a cui non può bastare un solo ascolto, un ottima base per riaccendere il proprio senso critico e renderlo costruttivo, quel senso che tra tutti ci rende più vivi e umani.


Ciao Valerio e benvenuto su IndieVision! E’ appena uscito il tuo primo album in studio dal nome “DPCM”, che rimanda ai primi tempi della pandemia e a quando si aspettavano i discorsi in tv di Conte in perenne ritardo. Raccontaci la sua genesi, nasce proprio in quei mesi?

Ciao IndieVision! L’album nasce proprio in pandemia, ma la sua realizzazione è diventata un’esigenza concreta nell’autunno 2020. Ero stanco e annoiato e al lockdown si sono sommati alcuni problemi personali che lo hanno reso un ostacolo ancora più duro da affrontare. Mi sono ritrovato da un giorno all’altro chiuso in casa con la mia famiglia, i membri della mia vecchia band avevano lasciato i loro strumenti da me perciò ho deciso di registrarmi da solo tutte le parti di qualcosa che non sapevo un giorno sarebbe diventato pubblico. Poi a Maggio scorso, incoraggiato dai miei coinquilini, ho inviato le demo a Jesse The Faccio, che è sempre stato un punto di riferimento per me e da lì è partito tutto in maniera inaspettata.


Intimismo, ironia pungente e critica generazionale sono solo tre dei principali temi che si mescolano nelle varie canzoni dell’album. Un disco che già da primo ascolto non mi è sembrato per nulla semplicistico. Scoprire tutte le ironie capillari dei tuoi testi ermetici è molto piacevole e trovare un disco ben strutturato poeticamente non è sempre così facile. Qual è la tua personale chiave di lettura dell’album? C’è un messaggio in particolare che vorresti passasse nel modo corretto da questo tuo primo lavoro?

Direi che il titolo DPCM è ovviamente provocatorio, vuole sembrare superficiale e capriccioso; è tutto partito da una mia ingenuità intrinseca, ho poi capito che in realtà è una chiave essenziale per arrivare alla fine dell’album. Il DPCM è stato simbolo di una difficoltà globale che all’interno dell’album costituisce la partenza di un disagio che ha trovato terreno fertile nell’intimità dei miei rapporti più stretti.


In ‘Poeti’ affronti il tema del rapporto tra uomo e spiritualità, in cui assumi un punto di vista molto razionale e pragmatico rifiutando filosofie vaghe e spiritualità sacre e profane (“Impatta così bene su di me la dinamica filosofica moraleggiante / Da rendermi così incapace da replicarla in maniera costante”). Ma se “il fallimento è la più grande aspirazione umana” e “i poeti muoiono giovani”, qual è il ruolo dell’artista nella società per te?

Io credo che nella società il ruolo dell’artista sia semplicemente inutile in quanto tale, ormai è molto più semplice avere un bel volto e sembrare artisti sul feed di qualche social network.

Lo abbiamo visto anche in questi due anni quanto non venissero calcolate le scene dal vivo e quanto fosse difficile far ripartire tutto ciò che avesse a che fare con la musica, quella nuda e cruda. Quanto meno credo esistano dei prodotti artistici autentici che smuovono le acque: è tutto quello che ci rimane dell’arte oramai, qualcosa che ci riporta alla lucidità per poco tempo e muore sicuramente giovane.


Mi piace molto la frase “ribaltare il concetto di identità, accorgersi straniero”. Quanto è importante saper cambiare prospettiva e, in tempi così incerti e soprattutto facendo parte di una generazione precaria per definizione, come ci si può riuscire?

Io mi risolvo quotidianamente nell'ascoltare musica o passando tempo con le persone con cui sto bene, ognuno credo abbia il proprio modo. Secondo me la nostra identità è messa a dura prova da come avviene la comunicazione quotidianamente: passiamo giorni in cui ci capita anche di uscire e dove a fine giornata le conversazioni reali saranno state una minima parte di tutte le interazioni che abbiamo avuto. Come possiamo dire di essere identità se improvvisamente tutte le nostre chat e i nostri account sparissero, quale traccia ci sarebbe di noi? E’ un pensiero che mi è nato durante la pandemia dove potevo sentire i miei conoscenti solo a distanza, però credo che il concetto di Io verrà messo a dura prova negli anni.


Qual è stata l’ultima volta in cui ti sei sentito straniero?

Beh molto spesso ahah. Soprattutto ora che sono a Milano da un annetto, mi basta allontanarmi di pochi metri dai luoghi che frequento per sentirmi straniero. Sono molto ingenuo e anche intrattenere certe conversazioni mi può far sentire estraneo: mi capita quasi tutti i giorni. Credo sia più una componente che riguarda il Visconti, topo di campagna, più che un’intera generazione.


“La morte a Venezia” è forse il brano più ermetico e simbolico tra tutti. Ci racconti come nascono queste connessioni di immagini, da Amanda Lear ai futuristi?

Fin dal liceo attorno a me e ai miei amici è nata una narrativa legata ai personaggi storici, alle vite di artisti corrotti e inevitabilmente privi di troppi stimoli ci siamo sempre divertiti a trovare tracce di ciò che ci piaceva nei posti da cui venivamo. Ho cercato di applicare questa cosa in camera mia quando non sapevo di cosa scrivere, provando ad accostare titoli di libri, video visti su youtube in quei giorni e da lì è partito un flusso di coscienza citazionistico ed esilarante. Avevo appena visto un video di Amanda Lear con i CCCP, così come con i miei amici avevamo una battuta ricorrente sullo schiaffo di Anagni: ho semplicemente cercato di mettere tutto assieme e sono nate delle connessioni interessanti.


Dpcm si muove in una provincia decadente, che ben accompagna la fotografia del mondo attuale che canti traccia dopo traccia, come quella in cui si trova Acqui Terme, la tua città di nascita. Quanta provincia c’è nel tuo immaginario artistico e quali sono le persone, artisti o momenti che ti hanno influenzato di più?

Sicuramente molta, ci sono cresciuto e fino ad un anno fa ci ho vissuto pure una pandemia, non la rinnegherò mai, la critico spesso ma in fondo mi ispira e mi piace tornarci. Tutto ciò che decade o ha sua forma nell'irrazionalità mi affascina, vedo il sublime nell'irregolarità e per questo Acqui Terme è un po’ un baricentro della mia esistenza.


Nel ringraziarti per quest’intervista ti chiedo: se potessi augurarti qualcosa per il tuo futuro personale e/o professionale, quale sarebbe?

Spero di poter essere ispirato tutta la vita e poter emozionare le persone con quello che scrivo, ma non utilizzando soggetti patetici bensì affinando un linguaggio che arrivi dritto al petto.



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