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Post Nebbia, "Canale Paesaggi": un meraviglioso declino ambientato nel 2020 - Recensione

“In quaranta, sul divano, cosa direbbe Freud, di noi” (cit. "Canale Paesaggi")

Si apre così “Canale paesaggi”, un sublime concentrato di lucidità contemporanea e sottile auto ironia sullo strano mondo che si respira nel 2020. I Post Nebbia, al secondo lavoro in studio dopo “Prima stagione”, conquistano oggi una maturità artistica che dovrebbe fare invidia a molti loro fantomatici “colleghi artisti” nati nel recente passato, che potrebbero fargli concorrenza solo sulla carta.


Chi vi parla è la persona che, quando ancora ai concerti si andava anche in più di 200, per primo si batté per offrire un posto di riguardo al gruppo padovano nella rassegna musicale Brilla, curata da noi di IndieVision e Il Faro. Già ai tempi di “Prima stagione”, infatti, respiravo in loro quell’aria di disfacimento e abnegazione generazionale parossistica che, con questo nuovo capitolo musicale, ha finalmente assunto una forma sensibilmente più matura, strutturata, eterea. Infatti credo che per iniziare ad ascoltare ed apprezzare i PN sia imprescindibile la loro prima stagione, fatta di pezzi di brillante intelligenza come “Zizek(“Il tipo che sta dentro lo specchio non mi dice più che cosa fare”) e di meraviglioso cinismo (ma va?) come “Cinico” (“è così destabilizzante realizzare che in fondo non si sta poi così male”). Fatta questa doverosa premessa per capire da quali solide basi partivamo, tuffiamoci a bomba in questo nuovo emozionante episodio di Black Mirror in salsa Griffin con una spruzzata di Monty Python.

Il disco si apre con la traccia omonima che funge da intro spirituale per iniziare a sintonizzarsi con le frequenze che animeranno l’intero album. Il canale a cui indirettamente si fa allusione è uno zapping di svariate televendite di supercazzole, Cavalieri dello Zodiaco, documentari alla Paolo Brosio. 38 secondi necessari ad ambientarsi nella mente dei PN.


Televendite di quadri”, tra i primi singoli estratti, è un inno al mondo che ognuno di noi vive quotidianamente da quando il cielo è solo la seconda cosa che guardiamo al mattino dopo lo schermo del telefono. Tra rime amare e ritornelli da canticchiare rannicchiati in un angolo della stanza, questo pezzo è proprio ciò che ci voleva per capire in quale torbida direzione il viaggio appena iniziato ci porterà. Curiosa la scelta di lasciare la versione remixata con Dutch Nazari solo come singolo fuori dall’album, trovo che il suo liricismo sciolto ci sarebbe stato benissimo anche all’interno dell’opera finale.

“Sto scegliendo i miei mezzi di informazione per confermare quello che so già” (cit. "La mia bolla")

Segue “La mia bolla”, dove per bolla s’intende quella percettiva con cui sbirciamo il mondo fuori dalla nostra finestra, reale o virtuale. È un serio problema di informazione oggi, quello di costruirsi dei filtri digitali con cui guardiamo solo ciò che vogliamo del mondo: una trappola infima con cui finiamo ad ignorare ciò che non ci piace, traendone poi la conclusione errata che quel qualcosa in realtà non esiste o non è così diffuso come qualcun altro ci dice. Nascondere i post di Salvini, Sgarbi, Meloni, negazionisti, razzisti e cretini vari non farà scomparire dal mondo quei post, ma solo dalle nostre bacheche digitali. Il problema resta vivo e vibrante nelle bacheche e vite di milioni di altre persone. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” non funziona purtroppo per queste cose, ed è facile ritrovarsi tutt’a un tratto stupiti da un’ondata di proteste anti-razziste nel Paese che si vantava di essere la culla della civiltà democratica, dal sit-in negazionista in città dove il Covid ha sfilato in carri militari pieni di bare, dal comizio del candidato leghista nella tua città natale in Puglia (triste storia vera). Le bolle digitali son sempre con noi, soprattutto quando non ci facciamo caso. Questo pezzo è un efficace monito al farci caso.


Viene quindi il turno di “Vietnam”, uno spaccato di meme e afasia dettati da uno stato di temporanea assenza di lucidità come se ne hanno molti quando ti accorgi della marea di input che il tuo cervello riceve in ogni secondo senza riuscire ad elaborarne mezzo.


Il paradosso della scelta: hanno creato anche un termine per quando coinvolge l’informazione: infodemia. “Streaming” in una quartina sintetizza efficacemente questo fenomeno con “Tutta questa varietà non mi fa più pensare. Non voglio più respirare tutto questo smog digitale”, perché, in fondo, anche scegliere cosa guardare, è qualcosa da guardare.

“Io sto guardando da un vetro le persone che mi passano accanto”.


Veniamo poi all’ennesimo paradosso dei nostri giorni: le persone di vetro. “Persone di vetro” getta un grido disperato d’aiuto verso quello strano fenomeno per cui abbiamo mezzi di comunicazione capaci di aiutarci a vedere chiunque in tempi più brevi che mai eppure finiamo a goderci i rapporti sociali troppo spesso solo tramite un vetro, sia questo del televisore, dello smartphone o della finestra oltre la quale non usciamo più così volentieri. La vita scorre attraverso uno schermo ed il rischio di vederla passare solo sotto forma di pixel è così concreto che spesso il pensiero di uscire fisicamente con qualcuno e di vederlo fuori da uno schermo ci mette addirittura a disagio.

“Per sopravvivere agli altri ogni giorno tu non sai quante cazzate mi racconto” (cit. "Luminosità alta")

Luminosità alta” affronta un tema più sottile di quelli toccati precedentemente: ammetto che mi ci è voluto qualche ascolto per coglierne appieno l’essenza, ma la prospettiva che ha sbloccato l’intuizione giusta è venuta da “Disperazione comune e totale”. Siamo tutti nella stessa barca, la stessa barca con una falla gigante, e se pure riusciamo a circoscrivere il problema di fondo che ci tormenta tutti ne restiamo comunque impotenti perché “non posso vivere senza dopamina”, e quindi ricaschiamo puntualmente in quelle dinamiche viziose che al contempo ci condannano profondamente e ci salvano apparentemente ogni giorno, ogni notte, con luminosità alta come schiuma dentro gli occhi. “Disperazione comune e totale”, egemonica e imbattibile. Versi di una potenza enorme e dannatamente ermetica.

“Il nero che circonda il mio universo non vuole che io torni al mondo esterno” (cit. "Nuoto sincronizzato")

Pirandello lo chiamava “vedersi vivere”, quella sensazione per cui ti senti “Spettatore di me stesso mentre mi guardo e mi lascio guardare”. L’ultimo brano, “Nuoto sincronizzato” riprende il concetto di incomunicabilità e impotenza accennato nella traccia precedente esplodendone il potenziale disfattista e avvilente. Affrontare questa serie di minacce alla socialità e alla normalità umana richiede uno sforzo enorme, lo sforzo di combattere istinti ormai così radicati in noi da averci assuefatti ad una comoda realtà farlocca da cui non vogliamo in prima persona uscire. Il disco si chiude con “Mi sta facendo diventare scemo e non so più come fare a darmi un freno” in cui tra le righe ci leggo proprio questo: darsi un freno non dai vizi in cui ci troviamo invischiati, bensì dalla volontà di lasciarseli alle spalle.


Questo concept album è esattamente ciò che ci voleva per descrivere il gran casino generale che popola la mia mente da un po' di tempo a questa parte. Mi ha tolto le parole di bocca per descrivere esattamente ciò che provavo, e perché. Un album che sintetizza, per certi versi, meglio di cinquecento pagine di saggi di Harari il mondo che ci circonda. Un meraviglioso declino in versione 2020 (mi perdonerà Colapesce per la citazione estemporanea). Fa da cornice sonora a questa gemma di rara lucidità una sofisticata e coerente produzione che fa di vocoder, riverberi e synth il mezzo ideale per comunicare concetti tanto difficili e scomodi.


Ho finito le parole, e se questa mia fin troppo prolissa parafrasi dell’album non vi ha lasciato almeno un minimo di curiosità di cosa si cela nella mente di questi padovani proiettati nell’aldilà musicale, allora questo album parla proprio a voi.



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