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Con "Phantom Favola" i Belize riscrivono la propria storia - Intervista

C’è un motorino, il Phantom Malaguti, a fare da filo conduttore nel nuovo album dei Belize. Ma più che un semplice scooter, diventa simbolo mitico di un’adolescenza sospesa tra sogni di gloria e la provincia da cui si cerca di evadere. "Phantom Favola", disco della rinascita per la band varesina, è una raccolta di racconti in musica in cui le relazioni, la crescita, le fratture e le ripartenze si intrecciano con una narrazione a tratti fiabesca, sospesa tra nostalgia e consapevolezza.



Abbiamo parlato con loro per farci raccontare il significato profondo di questa "favola" contemporanea, tra ritorni a Varese, il peso della memoria e il bisogno di non smettere mai di sognare di saltare dieci camion infuocati.



Come è nata l'idea di intitolare il vostro nuovo album "Phantom Favola" e qual è il significato dietro questo titolo?

L’idea è nata dopo che avevamo già scritto alcuni brani, uno dei quali intitolato proprio Phantom Favola, un titolo per noi evocativo in quanto “Phantom” non sta per “fantasma” ma si riferisce al Phantom Malaguti, l’iconico scooter anni ‘90/2000 con cui siamo cresciuti – o meglio che avevano i compagni di classe più cool di noi. La “Favola” subentra come un velo di magico e immaginifico attraverso il quale fruire il quotidiano; ed è dall’unione di queste due cose che il motorino diventa subito un cavallo alato, in sella al quale si può affrontare ogni sfida, e dalla provincia può portarti a esplorare mondi fatati.

 

Nel disco parlate direttamente al vostro io adolescente. Che cosa vi direbbe oggi quel ragazzo che sognava di saltare 'dieci camion infuocati'? Vi riconoscerebbe?

Ci piace pensare ci riconoscerebbe, anche se sempre più distratti, impegnati, preoccupati e appesantiti in fondo siamo ancora gli stessi ragazzi pronti a compiere imprese più grandi di noi, a fallire e a riprovarci di nuovo.

 

"Phantom Favola" sembra essere un album ricco di nostalgia e di un certo senso di perdita. Quanto è stato difficile – o necessario – recuperare quegli immaginari adolescenziali per ricostruire la vostra identità artistica attuale? Avete mai avuto la tentazione di lasciarli andare definitivamente?

Sicuramente c’è stato il tentativo di un dialogo con quello che siamo stati da ragazzi: abbiamo cercato di ri-metterci in connessione con chi eravamo, e ci siamo ritrovati di fronte ai nostri primi ascolti, Nirvana, Smashing Pumpkins, Verdena... inevitabilmente queste sonorità sono entrate nella scrittura del disco, ma tutto in maniera incredibilmente organica, senza sovrastrutture. La nostra unica volontà era quella di coniugare questa esigenza di sonorità di derivazione rock con ciò che avevamo fatto fino a quel momento e che consideriamo un po’ il nostro suono.

 

In 'Gattesca' si alternano momenti di calma a esplosioni improvvise, come se la struttura del pezzo rispecchiasse lo stato emotivo di quella 'notte magica'. Quando scrivete un brano, il sound segue il contenuto o è il contenuto a essere plasmato dal suono?

Sicuramente ci sono momenti del disco che sono più didascalici, riflettono quello di cui si parla tracciando similitudini. Questo disco infatti è stato scritto in modo un po’ diverso rispetto ai precedenti: quasi tutti i brani sono nati chitarra e voce (o pianoforte e voce),  per poi essere “vestiti” di un suono che cresceva insieme al testo, un po’ a corredo uno dell’altro. Sicuramente questo tipo di approccio ha consentito una sorta di tensione evolutiva, uno scambio più frequente tra le due cose.

 

In 'Varese Tuning' raccontate il ritorno a casa, l’incontro con amici che sembravano svaniti. Dopo anni di distacco, cosa rappresenta Varese per voi oggi? È ancora un posto di appartenenza?

Varese per noi rappresenta tante cose, forse la risposta cambierebbe in base alla giornata, addirittura al momento in cui ci viene posta la domanda. In questo preciso momento Varese è il nostro rifugio: È un posto da cui siamo scappati, chi per lavoro, chi inseguendo amicizie che magari non erano tali,… rimane un luogo fisico ma anche dell’anima, un porto sicuro in cui sappiamo di trovare un tipo di cose ed emozioni che difficilmente sapremmo scovare altrove.

 

"Phantom Favola" è stato descritto come il disco della rinascita dei Belize. Quali sono stati i principali cambiamenti o sviluppi nella vostra musica e nella vostra visione artistica rispetto ai vostri lavori precedenti?

Pensiamo di aver approcciato al disco con molta più consapevolezza in generale, dalla produzione alla scrittura: forse abbiamo anche meno paura di dover piacere, meno volontà di accontentare qualcuno o di giocare alle regole del gioco. Siamo forse anche più coscienti di ciò che sappiamo fare; ad esempio, se vogliamo scrivere un brano super alternativo, sappiamo di dover fare i conti con il fatto che la mia scrittura (Riccardo, ndr) ha comunque un’impronta pop, e che Mattia ha un suo modo di suonare la chitarra. In passato ci siamo limitati molto nel tentare nuove direzioni, ora forse ci concediamo maggiore libertà con la consapevolezza di chi siamo.

 

Avete delle date live importanti in arrivo. Come preparate le vostre performance dal vivo e cosa vi aspettate da questi eventi?

Il mondo dei concerti dal vivo è cambiato moltissimo dall’ultimo tour: negli ultimi anni c’è stato un significativo ritorno alla musica suonata dal vivo, con un progressivo abbandono dei campionatori a favore delle band - e siamo davvero entusiasti di tornare sul palco in questo contesto. Ovviamente le due cose non si escludono a vicenda, ma la voglia di alzare il volume e dare sfogo agli effetti per chitarra si sposa perfettamente con una scena attuale in cui il pubblico sembra desiderare musica suonata, dopo anni di sequenze e approcci più contemplativi (un mondo di cui abbiamo fatto parte anche noi).


Siamo contenti, stiamo lavorando molto per costruire il miglior live possibile e portare questo album dal vivo che sarà molto divertente da suonare e cantare con chi lo ha ascoltato e amato.

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