Carlo Corallo, rapper ragusano classe '95 ormai da anni trasferito a Milano, è un outsider della scena rap cantautorale nostrana. Ho avuto modo di consumare i suoi due album e di recensire l'ultimo, "Quando le canzoni finiscono": una scrittura vicinissima alla poesia, sicuramente unica nel nostro paese per le immagini che dipinge e per i sentimenti che evoca. A qualche giorno dalla pubblicazione del nuovo singolo "Un medico mi ha fatto ammalare" (Osa Lab), in collaborazione con Dutch Nazari, abbiamo scambiato qualche parola con l'autore.
Ciao Carlo, benvenuto su IndieVision! Come stai? Come sta andando il singolo?
Intanto bentrovati ai lettori di IndieVision. Il singolo sta andando bene, anche in una maniera nuova per me a livello numerico, perché è entrato all'interno di alcuni circuiti riservati perlopiù a indie e urban che non avevano mai toccato la mia musica, quindi bene, così come a livello di riscontro. Sono contento anche di aver dato l'opportunità ai miei ascoltatori di avere un pezzo un po' più "ballabile", adatto a muovere la testa; un pezzo funk, però senza comprimere il significato delle strofe rappate, che comunque celano un significato abbastanza profondo: c'è un largo sottotesto che si cela dietro una strofa che apparentemente suona un po' più leggera rispetto alle altre.
Infatti all'apparenza sembra un pezzo d'amore, quantomeno nella lettura più semplice.
I temi principali sono due: l'amore e il lavoro. Il brano parla di quanto lo status dato alle nostre professioni possa incidere all'interno delle nostre relazioni.
Prima parlavi di una base più funk, che effettivamente è una cosa che abbiamo trovato piuttosto raramente nei tuoi brani. Generalmente, parlando dei tuoi brani, ho sempre apprezzato quest'idea di non provare a nascondere le parole dietro a basi stratosferiche o arrangiamenti tracotanti, quantopiù portare in cima le parole e lasciarle in evidenza: nasce da una consapevolezza dell’importanza dei testi nella tua musica?
Sì, nei miei progetti, soprattutto in "Cant'autorato", le strumentali hanno avuto sempre un ruolo di accompagnamento, proprio perché il testo richiede già una grandissima attenzione: c'è una grande mole di parole, di significati e quindi complicare la base e aggiungere troppi suoni secondo me toglierebbe un po' all'esperienza immersiva, che invece è facilitata ad esempio da espedienti come i rumori ambientali, basti pensare ai versi degli uccelli e al rumore delle onde che si celano in ogni mia canzone e secondo me fanno vivere il testo come un'esperienza in cui immergersi. Gli esperimenti che ho fatto in studio, e sono rimasti lì, con suoni più ricercati e articolati rendevano il tutto estremamente complesso e capivo che per l'ascoltatore sarebbe stato difficile seguire ogni passaggio senza perdersi, quindi assolutamente una scelta decisamente voluta. Diciamo che questa strumentale invece ha un ruolo diverso: data una strofa che era nata quasi come una poesia, che avevo scritto senza una strumentale, che era molto triste e densa di significato, nata da un periodo doloroso, renderla abbastanza funk e tirare su di morale anche me stesso anche attraverso l'arrangiamento: credo che l'esperimento abbia avuto senso.
Hai parlato anche di poesia. La tua scrittura a mio avviso, per ritmo e stile, ma anche per le figure retoriche che vai ad inserire, va veramente tanto nella direzione della poesia. Per te c'è un punto in cui termina la poesia ed inizia la musica?
Io non studio a tavolino col fine ultimo di fare poesia, anzi, ho molta paura quando parlo dei miei stessi progetti e uso la parola poesia che, addirittura scherzando coi miei amici, chiamo anche "P-Word", come tutte quelle parole bandite. La parola poesia esprime, oltre al valore letterario, un preciso concetto di perfezione dovuto alla scrittura e all'arte: io scrivo come mi viene, poi qualcuno a volte può dire che io descriva delle immagini poetiche, però è sempre una conseguenza del mio naturale modus-operandi. Non c'è niente di strutturato, tant'è che io ho molta più cultura in ambito musicale che poetico, conosco molti più rapper che poeti. Preferisco raggiungere la poesia per sbaglio che farlo in modo artefatto, anche perché forse quando inizi a ricercare la poesia non la trovi più. Quindi sì, i miei pezzi sono pezzi rap al massimo definibili come rap cantautorale, ma non sono poesie.
Lato poesie, invece, hai avuto modo di esibirti in qualche slam poetry?
Ai miei concerti porto sempre dei momenti di reading, dove leggo due testi che ho scritto durante il Covid e sono presenti solo su Instagram. Uno si chiama "Discoteche" e l'altro "Casalpusterlengo". Sono due testi che sono totalmente svincolati dal rap, pur essendo scritti in rima, che io leggo durante i concerti e ho composto proprio per avere questa finalità inerente alla lettura, tuttavia non sono grande fan dello slam poetry, proprio perché non riesco a concepire la musica come una sfida. Non riuscirei a presentarmi sul palco sperando di essere più bravo degli altri. Credo che quello sia un approccio molto "sportivo" e secondo me praticarlo alla lunga finisce per "bruciarti". In generale credo che la scrittura debba fluire in maniera veramente nautrale e penso sia più finalizzata all'amore che allo scontro o alla supremazia verso gli altri. Non riuscirei mai a dire "La mia bella scrittura è più bella della bella scrittura di un altro", ad esempio, quando ascolto Dargen D'Amico, di cui ho apprezzato gli album più poetici, amo la sua musica e non ho mai pensato di paragonare la sua musica alla mia. Anche facendo un paragone tra Dargen e Rancore: tra loro c'è una diversità però riesco ad apprezzare entrambi i tipi di bellezza senza paragonarli.
Invece Dutch è legato a filo doppio al mondo della poesia, faceva slam prima di passare alla musica. Cosa mi dici di lui? Com'è stato averlo in feat?
È stato molto bello. Io ero dapprima un suo fan, soprattutto da quando ha scritto "Jenin", canzone molto bella che non tutti conoscono, che mi ha fatto capire: "Wow! C'è un nuovo bravo rapper in città!". Da lì ho iniziato a seguirlo e sono andato anche ai suoi concerti live prima di conoscerlo, poi è capitato di beccarsi qualche volta agli eventi fino al periodo in cui ho lavorato a "Quando le canzoni finiscono", in cui gli ho proposto di fare il ritornello di "Natura Umana" e lui mi ha detto: "Guarda, se voglio fare un pezzo con te, devo anche rappare". Lui tra l'altro mi è stato molto vicino nel periodo in cui ho sofferto tantissimo, che poi è il periodo che ha portato alla scrittura di questo brano: l'ho coinvolto perché nessuno avrebbe potuto capire meglio il mood in cui mi trovavo. Siamo diventati amici e tutt'ora ci vediamo a cadenza quasi giornaliera. Sono felice che il pezzo abbia fatto nascere anche un'amicizia e credo che la nostra compatibilità si apprezzi bene nel brano.
Rubo una frase proprio da questa canzone: "Un interruttore ha questo nome anche quando accende la luce". Frasi come questa sono immagini che ti vengono casualmente e decidi di inserire in una fase successiva, o sono frutto di lavoro direttamente sulla strofa?
A differenza di altre rime, in questo caso ricordo precisamente quando l'ho scritta. In un momento difficile nell'ultima fase della mia vecchia relazione, sono andato a correre e, nel tardo pomeriggio, appena prima di tornare a casa, mentre nella testa mi passava di tutto ho pensato che effettivamente l'interruttore si chiama così anche se accende la luce. Ho detto "Wow! Devo tornare subito a casa e appuntarla" e ci ho pensato per tutto il tratto di ritorno tra il parco e la casa per non dimenticarmela.
Condividi i natali con Battiato, Colapesce, Levante e tanti altri fuoriclasse in tanti ambiti artistici: ti è mai capitato di desiderare di essere nato altrove, in Italia o fuori? E se sì, dove?
Per motivi diversi dalla musica sì, per motivi meramente logistici o economici decisamente: chi nasce in un'altra città ha tutto il supporto della sua città, io sono nato a Ragusa che è una città che si disinteressa tantissimo dell'arte e della cultura; io sono ancora sconosciuto per buona parte dei miei concittadini e lo noto anche quando vedo le statistiche di Spotify dove Ragusa non è mai tra le prime 50 città in cui sono più ascoltato pur essendo una provincia di più di 70mila persone che non sono proprio due spicci. Non è una provincia che ti esalta, anzi, è una provincia che ti soffoca e se scegli una strada "diversa" ti scontri col pragmatismo di chi preferirebbe tu facessi un lavoro normale e ti vede come un giullare, anche se provi a far musica nel modo più dignitoso possibile. Per questi motivi mi piacerebbe essere nato altrove. Va anche detto che nascere in una provincia dove non c'è un grosso sviluppo artistico mi ha permesso di vedere le cose in modo totalmente diverso rispetto a tutti gli altri, come se fosse una terra senza bandiera da conquistare, una serie di immagini che nessuno ha mai descritto nel rap: per me è stato terreno fertile parlare della Sicilia e delle sue contraddizioni dalla provincia più a sud d'Italia, se vogliamo la più estrema. Prima era stata descritta forse solo da Camilleri, Quasimodo e Leonardo Sciascia, pochi nel corso della storia, ma nel rap non lo era mai stata; l'unico altro rapper ad uscire dal circolo locale era stato Soulcé che mi ha aiutato molto agli inizi, il quale però aveva un immaginario più onirico e forse meno legato a tanti riferimenti così dettagliati come quelli presenti nella mia musica. È stato uno dei primi a darmi una chance e ad insegnarmi, banalmente, anche come tenere un microfono in mano.
Ti collochi, mi sembra di capire, in questa nicchia del "Conscious"?
Secondo me c'è da fare un'ulteriore distinzione, perché molto spesso questa parola "Conscious" è un po' abusata. Il mio rap non è propriamente "Conscious", perché ad oggi si definisce così quel rap che sinceramente non mi piace neanche troppo, quel rap che descrive ad esempio immagini tipo agenti atmosferici, il mare, il sole e la luna senza un grande ragionamento dietro. "Rap cantautorale" invece è più identificativo, perché già lega la mia scrittura a un modo di esprimersi che vede varie sfaccettature del mondo, non è solo descrizione poetica del paesaggio, ma anche riflessioni, critica sociale, anche una scrittura più "urbanizzata". Il rap conscious, per come si intende oggi, è più "Sei bella come una stella" o "Le ali di piume" ecc., mentre secondo me questo tipo di rap è molto più articolato e molto più vicino per assurdo ad altri generi come la narrativa che ha una scrittura immaginifica e basta.
E il cantautorato come se la passa secondo te?
Secondo me è giusto accettare che alcuni rapper, in realtà pochissimi, hanno preso le redini e l'eredità di questo genere che, nel suo habitat naturale è stato interpretato veramente da pochi artisti, basti pensare a Colapesce e Dimartino e Brunori SAS, che comunque hanno sempre abbracciato il genere in maniera più edulcorata, più pop, forse anche dopo carriere lunghissime dove non si vede mai la luce, a un certo punto decidi di interpretarlo in modo più ironico, più commerciabile, più che commerciale. Credo che il rap, proprio per come è nato e per il linguaggio a cui è collegato, non abbia mezzi termini, il rap è crudo anche nelle storie poetiche: il vero cantautorato lo percepisco solo nei dischi dei rapper cantautorali oggi, lo percepisco in alcune frasi di Dargen, di Rancore e di Murubutu stesso. Ovviamente questa è solamente la mia visione.
Scrivendo pensi che la tua vita assuma contorni più ottimisti o al contrario con la musica ti si spengono quelle poche speranze che rimangono di un mondo migliore?
La scrittura è esattamente il processo con cui esorcizzo il male dentro di me. Se mi immagino in un momento in cui perdo le speranze verso il genere umano, la scrittura mi aiuta a canalizzare questa rabbia e a rivalutare tutto. Dopo che ho caricato questo pezzo su Spotify ho sentito una sensazione di sollievo, come se avessi rinchiuso in quel brano tutte le brutte sensazioni di quest'ultimo periodo e fossi riuscito a tramutarle in arte, che è un concetto che oggi è anche molto difficile da far passare, basti pensare a tutti gli atti di violenza che succedono al giorno d'oggi, ma anche a tutta la violenza che trasmette la musica, talvolta anche ingiustificata da un riscatto sociale. La musica mi fa ben sperare e mi aiuta a rivedere le cose in maniera rosea, poi inevitabilmente il mondo mi riporta al mio mestiere di scrittore e mi fa soffrire, anche quando il mondo prova ad emulare una vita più canonica che magari non vorrei neanche. Ovviamente è una visione metaforica, che però a dirsi così mi fa molto divertire.
Ti faccio una domanda bonus, dai.
Per il 30? (ride, ndr).
Descrivi l'attuale governo italiano con una canzone.
Fammi pensare, bella domanda! Mah, ti direi "Mussolini" di Bello Figo.
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