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La città, la notte, le parole: Via Mercanti si racconta - Intervista

C’è chi scrive canzoni per raccontare storie, e chi le scrive per non perdersi. Via Mercanti - alias Simone Castelluccio - appartiene a questa seconda categoria: quella dei cantautori che usano la musica come bussola emotiva, come spazio intimo dove le fragilità non si nascondono ma si accolgono. Con "Paradiso Light", il suo primo album Via Mercanti si mette a nudo con una sincerità disarmante, intrecciando cantautorato e synth nostalgici, testi viscerali e riflessioni generazionali.


Via Mercanti

Abbiamo parlato con lui del lavoro che c’è dietro al disco, della dolcezza che resiste tra le crepe, del rapporto conflittuale con la sua città e dell’urgenza di raccontare l’amore - e il disagio - senza filtri.


Il disco è suonato interamente dal vivo e mescola cantautorato e synth anni '80. Come hai lavorato per trovare un equilibrio tra l’intimità dei testi e la coralità del suono? Ci sono stati artisti o dischi precisi che hanno ispirato la produzione?

Il disco è stato suonato interamente dal vivo perché volevo che ogni suono respirasse, che avesse un’anima, una vibrazione reale. Per trovare l’equilibrio tra l’intimità dei testi e la coralità del suono abbiamo lavorato molto sulle intenzioni, sugli accenti emotivi di ogni brano, cercando sempre di fare in modo che la musica non decorasse il testo, ma lo amplificasse. Ogni canzone è nata con un'idea ben precisa in testa, legata a un'emozione, un’immagine o una sensazione. Più che a dischi o artisti precisi, la produzione si è ispirata a un percorso di ricerca sulla mia identità: cosa volevo dire, come volevo suonare, che tipo di mondo volevo costruire attorno a queste parole. Sicuramente c’è un’influenza della scena indie italiana e dei grandi cantautori, ma il suono di Paradiso Light è soprattutto il frutto di un lavoro profondo su di me.


Nel brano “Insegna Led” si parla di amore come atto di resistenza, quasi una rivolta in mezzo all’asfalto. Quanto è importante per te raccontare l’amore in modo non canonico, e quanto influisce la tua esperienza personale nell’approccio viscerale e a volte “politico” con cui scrivi certe storie?

Raccontare l’amore in modo non canonico per me è fondamentale, perché oggi più che mai ci vengono imposte idee che lo vogliono classificare, incasellare, limitarlo in base a generi, ruoli o condizioni. Ma l’amore, quello vero, è libero da tutto questo. Insegna Led nasce proprio da qui: dalla difficoltà di parlare di un sentimento tanto fragile quanto potente, che oggi in certi contesti diventa davvero un atto di resistenza. Amare può essere una rivolta, un gesto politico, quando va contro modelli culturali tossici o una società che fa ancora fatica ad accettare la diversità. La mia esperienza personale ha avuto un peso enorme nella scrittura, perché certe cose le ho vissute sulla pelle, come tanti ragazzi e ragazze che ogni giorno lottano per essere se stessi senza paura. Insegna Led parla di restare uniti anche quando sembra troppo pericoloso, troppo distante, troppo scomodo. È un invito a non mollare la mano di chi amiamo, anche quando il mondo ci chiede di lasciarla andare.


“Salerno è morta” è un titolo fortissimo, che sembra racchiudere allo stesso tempo delusione e affetto. Come nasce questo brano, e che rapporto hai oggi con la tua città d’origine dopo averla ritratta in modo così crudo e sincero?

“Salerno è morta” è una provocazione, sì, ma anche un atto d’amore. Il brano è nato proprio a partire dal titolo, che volevo fosse uno scossone, soprattutto per chi come me è cresciuto lì. Dietro quella frase forte si nasconde però una dichiarazione profonda e malinconica: quella di chi ama la propria città al punto da sentirne ogni limite, ogni occasione mancata, ogni silenzio di troppo. Salerno, per me, è un luogo che tiene insieme due pulsioni opposte: il bisogno di restare e il desiderio di andarsene. È casa, ma anche prigione emotiva. Ci sono legato visceralmente, ma è anche il simbolo di quanto può essere difficile credere nei propri sogni quando attorno a te sembra tutto fermo, immobile. Il mio rapporto con Salerno oggi è complesso: c’è affetto, rabbia, delusione, ma anche speranza. La canzone è la fotografia sincera di questo legame, e spero che possa accendere una riflessione in chi la ascolta, non solo su Salerno, ma su tutte le città che non riescono a trattenere i sogni dei propri figli.


Nei tuoi testi si percepisce spesso un senso di spaesamento generazionale, come in “Paradiso Light” o “Thè al mandarino”. Ti senti parte di una generazione disillusa, oppure la malinconia che racconti è più un filtro personale attraverso cui guardi il mondo?

Credo che sia entrambe le cose. La malinconia per me è un filtro naturale, un modo personale di osservare il mondo, di viverlo e raccontarlo. Ma allo stesso tempo sento sulla pelle un forte spaesamento generazionale, che appartiene non solo a me, ma a tantissimi ragazzi e ragazze della mia età. Viviamo in un tempo pieno di incertezze, con un futuro sempre più sfocato e una marea di stimoli che spesso confondono più che orientare. Manca una direzione chiara, mancano modelli autentici, e questo genera un senso diffuso di disillusione che cerco di raccontare nei miei brani. Quindi sì, c’è una malinconia che è mia, intima, ma c’è anche un malessere collettivo che mi attraversa e che provo a trasformare in canzoni. Perché, anche se non ho soluzioni, credo sia importante nominare questo disagio. Farlo esistere.


Hai raccontato che “Tram” è una canzone-ninna nanna, un momento di sospensione dal caos. In un album così denso di ferite e consapevolezze, quanto spazio c’è per la dolcezza? È più difficile scrivere una carezza o un colpo allo stomaco?

La dolcezza è ovunque, anche se a volte si nasconde. “Tram” è nata proprio come una carezza, mi piace definirla una favola malinconica della buonanotte, come un momento di respiro tra le ferite. E sì, paradossalmente, è molto più difficile scrivere una carezza. Perché richiede una delicatezza estrema, una sincerità totale. Un colpo allo stomaco è immediato, viscerale, viene dalla pancia. Ma una carezza, per funzionare, secondo me deve arrivare nel punto esatto in cui fa bene. E quello, a volte, è più difficile da trovare. Durante il mio percorso sicuramente c’è molto spazio per la dolcezza e mi piace che sia così.


Questo è un album che nasce come “una lunga chiacchierata in panchina tra amici”. Cosa ti auguri che resti a chi ascolta Paradiso Light? Vuoi che si sentano meno soli, che si pongano domande, o che trovino nelle tue fragilità uno specchio delle proprie?

Sicuramente mi auguro che ogni parola del disco possa risuonare un po' nella quotidianità di ognuno e per questo sentirsi meno soli, più compresi, parte di un grande gruppo di amici. Vorrei anche che questo disco lasci il coraggio di porsi delle domande, anche quelle più scomode e rispondere a queste ultime con la forza, osando, anche se può sembrare strano o sbagliato. A volte le cose più belle sono quelle che vengono di getto, quelle meno costruite. Mi piacerebbe che ognuno possa trovare un pò di se e della propria vita in ogni storia che ho scritto, lasciando spazio alle proprie fragilità. Penso che se una mia canzone può diventare una panchina su cui fermarsi a respirare, anche solo per tre minuti, allora ho fatto bene a scriverla.


Se dovessi descrivere Paradiso Light a qualcuno che non ti ha mai ascoltato, senza usare parole ma solo un oggetto, un sapore e una sensazione… cosa sceglieresti?

Per descrivere “Paradiso Light” a qualcuno che non mi ha mai ascoltato senza usare le parole, penso che userei una disco ball o un casco graffiato fra gli oggetti, il sapore amaro del mandarino e la nostalgia che si prova dopo un concerto o dopo una serata in discoteca.



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