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Di tramonti e di aliena umanità: Lucio Corsi al Moon in June - Live Report

“Che esista un altro mondo io non ne dubito Basta credere agli occhi Credere agli occhi anche quando si chiudono” (da "Un Altro Mondo")

Durante il suo live al Moon In June, sull’Isola Maggiore, Lucio Corsi di mondi-altri ne ha creati tanti. E io gli occhi li avevo bene aperti, ma a tratti è stato comunque difficile crederci.


Difficile credere di avere la fortuna di assistere ad un concerto in riva a un lago, il Trasimeno, con il sole che lentamente tramonta e cambia la percezione, l’atmosfera, la luce facendo sì che sembri di partecipare ad almeno quattro esibizioni diverse.


Difficile anche credere alle proprie orecchie, mentre tra un accordo glam e uno folk, tra un assolo di tastiera, uno di chitarra e uno di armonica, Lucio Corsi sorprende e ammalia con la sua voce soffice, il suo accento toscano, e le frasi dei testi delle sue canzoni che sono tanto piccole quanto enormi, totali, travolgenti – un po’ come lui, minuscolo nella sua tutina nera, ma con una intensità tale da riverberare per tutta l’isola.


Assistere ad un concerto al tramonto, con il sole negli occhi, è un’esperienza particolare, perché è un continuo cambio di sfondo. Come se qualcuno da lontano sostituisse ogni quarto d’ora la scenografia: è ancora alto in cielo e rende tutto giallo ocra mentre Lucio e i suoi sei musicisti - dalla sintonia palpabile, che non li ha mai abbandonati per tutto il live - sono sagome nere controluce durante “Freccia Bianca”, “La Bocca della Verità”, “Amico Vola Via”, “Danza Classica” e “La Gente che Sogna”. Scende e colora le nuvole di arancione e lascia spazio a un po’ di azzurro in “Un Altro Mondo”, “Trieste”, “Big Buca”, “Astronave Giradisco”, “Orme” e il divertentissimo quanto profondo talking blues “Senza Titolo”. Scende ancora ed è sempre più rosso e vibrante alle spalle di Lucio mentre rimane sul palco da solo con la sua chitarra acustica, in una parentesi tutta folk cantautorale sapientemente collocata a fare da spartiacque del concerto. Suona “Francis Delacroix” (nuovo singolo ancora da completare e registrare), “La Lepre”, “Onde”, legge la sua poesia “Le Statue” (che narra l’esistenza dei monumenti, costretti a vivere una vita immobile, con il presente alle spalle), mai messa in musica, ma non per questo meno suggestiva.


Corsi è come un bambino in un parco giochi: passa dall’acustica alla tastiera, suona cover e medley, a metà si dimentica come fanno, dice che forse è meglio smettere e passare alla prossima, ma poi gli tornano in mente e continua. Suona “Hai un amico in me”, di Randy Newman, famosissimo pezzo di Toy Story, e la sua personale versione tradotta di “Short People”, sempre di Newman; unisce “Maremmamara” a “E non andar più via” di Lucio Dalla, mentre il pubblico si gode lo spettacolo sull’erba, chi sedutə a terra, chi in piedi a ballare, chi grande e chi bambinə. Lucio è per tuttə.


È solo da “Il Lupo”, quando la sua banda – composta da Marco Ronconi alla batteria, Tommaso Cardelli al basso, Filippo Scandroglio alla chitarra elettrica, Iacopo Nieri al pianoforte, Giulio Grillo alle tastiere, Gabriele Bernabò alle chitarre e alle tastiere, che accompagnano Lucio dai tempi del liceo – torna sul palco, che il sole è ormai del tutto sceso dietro alle colline, e anche se continua ad illuminare non si mangia più i bordi dei corpi; fa prendere forma ai volti, svela i lineamenti, dà colore ai vestiti.


Ognuno dei musicisti di Lucio Corsi, dietro di lui disposti a mezzaluna, sembra uscito da un film diverso, ognuno di un’epoca precisa: chi in camicia bianca, chi con i pantaloni a zampa, chi con una maglietta corta appena sotto l’ombelico, chi coloratissima, anni ‘90. Lucio, invece, sembra uscito direttamente da un altro pianeta, e dentro di sé ha tutte le epoche e nessuna, col suo cerone bianco che sul viso si mescola al rossetto sbaffato, i suoi capelli lunghi e fini, i suoi tacchi marroni, un po’ Iggy Pop, un po’ David Bowie, un po’ un funambolo di un vecchio circo francese, un po’ un furbo ragazzetto toscano al quale è impossibile dare un’età.


Per questa seconda parte di live, dopo la parentesi in solo, si ritorna in un mondo tutto glam rock, fatto di lunghi assoli e di brani più ritmati, da “Magia Nera”, a “Glam Party”, fino a “20th Century Boy” dei T-Rex e “Ho un anno di più” di Battisti – intanto, le luci del giorno sono state sostituite dai fari. Le due ore di concerto di concludono con “Cosa faremo da grandi?” e poi due bis, che vedono tutto il pubblico in piedi a ballare sotto palco.


C’è qualcosa in Lucio Corsi. È facile descriverlo come un alieno – e in parte lo è, atterrato come sembra da qualche altra parte, in un panorama musicale dove niente gli somiglia. Ma questo suo essere extraterrestre è reso davvero magico da qualcos’altro: il suo essere profondamente, senza sforzo, senza artifici e senza pretese, umano. Anche se i suoi testi parlano di pianeti, di mondi diversi, di animali parlanti e di statue che prendono vita, il suo linguaggio è ben piantata a terra. È al livello di tuttə, e tuttə la possono vedere, toccare e capire. Che siano bambinə che lo percepiscono come una filastrocca o adultə con le lacrime agli occhi nel sentire la canzone di un cartone della loro infanzia.


“Quando l'azzurro del cielo si riposa lanciando il nero sulle case E le automobili gridano fedeltà rimanendo dove le hanno parcheggiate I cuscini portano in vacanza la gente che sogna Dove accade di tutto, ma tutto ciò che accade non conta” (da "La Gente Che Sogna")

L’azzurro del cielo è a riposo. È nero mentre il traghetto ci riporta verso la macchina, che fedele aspetta dove è stata parcheggiata. Nel concerto di Corsi, penso, è accaduto tutto. Tutti i generi musicali, tutte le epoche, tutti i mondi, il passato, il presente e il futuro. Per questo potrebbe essere tranquillamente stato un sogno. Nel dubbio, continuerò a credere ai miei occhi e alle mie orecchie.



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