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Wolf Alice, The Clearing - Recensione

  • Immagine del redattore: EcceNico
    EcceNico
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 4 min

Cosa resta dei vent’anni quando sorpassandoli si lasciano indietro incertezze, dubbi e brivido dell’ignoto propri di quell’età? Secondo i Wolf Alice, e la loro voce ed anima pulsante Ellie Rowsell, resta un album denso e deciso, “The clearing”: il quarto in studio di una band esplosa negli scorsi anni ’10 e che da allora non si è mai fermata né ha mai smesso di mettersi in gioco, tra tour mondiali, di cui uno europeo al fianco di Harry Styles nel 2022, e una fanbase che l’ha consacrata a voce di un’intera generazione.


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C’era infatti ormai poco di cui il gruppo londinese non avesse già cantato e pochi accordi rimasti non suonati finora: dal loro primo dirompente album “My love is cool” (vincitore del Mercury Prize), un concentrato di forza e pezzi iconici che tuttora mi ritrovo ad ascoltare ad occhi lucidi come “Bros”, “Silk” o la mia personal favorite “White leather” (bonus track della deluxe edition), una traccia sublime e devastante nella sua delicatezza; passando per “Visions of a life”, un secondo album coi fiocchi, sprezzante al punto giusto e forte di una narrazione che spaziava dall’universo interiore di un’esistenza travagliata allo spazio profondo e lontano dalle preoccupazioni terrene, intraviste lucidamente lontane anni luce.



Venne poi il turno di “Blue weekend”, l’album spartiacque della loro carriera che gli ha fruttato un Brit Award come Best Group, un ambizioso e brillante lavoro di 11 tracce che li ha portati a calcare i palchi di tutto il mondo grazie ad un’evocativa estetica sonora plasmata dalla sofferenza e dalla delicatezza, capace di trasportare l’ascoltatore in un’altra dimensione: ne era testimone la prima sferzante traccia “The beach”, un crescendo intenso e grandioso di esistenzialismo dal retrogusto vagamente romantico; nello stesso album trovarono posto anche “Lipstick on the glass” e “The last man on earth”, due ritratti perfetti e speculari delle contraddizioni in amore, e “Delicious things”, un’agrodolce realizzazione di quali angoli brillanti e al contempo oscuri la vita da star e l’edonismo che ne consegue possano portarti a visitare.


Arriviamo dunque lo scorso 22 agosto all’attesissimo quarto capitolo della loro carriera, “The Clearing”. Aspettavo con impazienza questo album e con esso la nuova direzione che sapevo avrebbe preso il gruppo, forti un’indole votata alla sperimentazione e all’impossibilità di stare fermi dimostrata ormai da svariati anni. Ebbene, l’attesa è stata ripagata abbondantemente. Già ascoltandolo dal vivo in anteprima lo scorso giugno all’Apollo di Milano ne ero rimasto folgorato, anche per via di una formazione in splendida forma che, si percepiva, scalpitava per tornare su un palco e presentare ai loro fedeli fan i loro nuovi pezzi.


La meravigliosa live session dal "The Troubadour" lo scorso 1 settembre

Dall’introspezione analitica di “The thorns”, che introduce l’album, alla consapevolezza distaccata di “The sofa” verso le distrazioni e le aspettative esterne di se stessa, della sua musica e della sua vita, Ellie Rowsell e i suoi hanno compiuto un passo deciso verso la coscienza di ciò che sono o non sono, e ciò che vuole o meno essere la loro musica. Perché al quarto album è facile venir trascinati verso i vizi dei mestieri creativi, siano essi le aspettative discografiche, quelle della fanbase o quelle della stampa. Può essere difficile fare passi solitari verso l’ignoto, col rischio di scontentare qualcuno, o al contrario essere molto facile seguire una direzione ormai già tracciata e funzionante per stare comodi a godersi una posizione privilegiata già ampiamente conquistata nel tempo.


“The clearing” è tuttavia anche molto più di un dito medio a mode ed abitudini contemporanee, è anche molto di più: è la positiva autorealizzazione di “Bloom baby bloom” del proprio valore, è l’elogio dell’amicizia e della complicità di “Just two girls”, il momento nostalgico di “Leaning against the wall” e quello gioioso di “Passenger seat”. È un album che gioca coi contrasti come in fondo fa anche la nostra vita, che siano essi quelli tra gioco (“Bread butter tea sugar”) e paura, o tra ambizione (“Play it out”) e disordine, tra famiglia e solitudine (“Safe in the world”).



Un pop un po' rock e un po' folk, diverso da ciò che è venuto prima, eppure distintamente riconoscibile come Wolf Alice, senza paura di passi falsi o di incomprensioni (come forse del resto già sapeva quando in “Smile” cantava “I am what I am and I’m good at it, and you don’t like me? Well, that isn’t fucking relevant”). Mentre ci avviciniamo alla conclusione del disco, la penultima traccia “White horses” riassume in modo eccellente quanto sto cercando di scrivere a parole dall’inizio di questo articolo:


“I could just wander, always like a leaf on the southeast breeze I do not need no rooting, I carry home with me”

Un album sicuro nelle sue quirkyness, consapevole del presente, proiettato nelle piccole grandi sfide del quotidiano, a tratti giocoso e sincero. The clearing come metafora di radura in cui abbandonarsi dopo una notte passata nel bosco fitto, felici di aver ammirato la luna tra le foglie, temuto gli scricchiolii nei cespugli, goduto delle comode radici per riposarci e bevuto dal ruscello inatteso trovato tra i massi. Un album sublime e insieme speranzoso, cosciente di essere il più grande scritto finora e senza dubbio il più piccolo da qui in poi.



I Wolf Alice saranno in Italia in un'unica data il 13 novembre all'Alcatraz di Milano.

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