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“Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è”: intervista ad Amalfitano

Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è” non è solo il titolo del nuovo album di Amalfitano, ma una dichiarazione poetica, un’incisione che sembra arrivare da un altro tempo. Un disco introspettivo e che analizza il cambiamento accogliendone ogni sua parte, dalla felicità alla perdita, passando per l'accettazione di sè e degli avvenimenti che non possiamo controllare.


“Il titolo è una scritta che ho visto su un muro… Mi è rimasta in testa per anni. Parlava di me in qualche modo e di quello che sono stati i miei anni passati, ma anche di un tema a cui penso spesso: il cambiamento, la storia - nostra e di tutti - e di quante volte moriamo” ci racconta l’artista, evocando quel senso di trasformazione e rinascita che attraversa tutto il disco da tante prospettive diverse.


intervista Amalfitano

A pochi giorni dall’uscita, Amalfitano ci ha raccontato le sue dodici tracce, dove l’amore è “artigiano e demiurgo”, la fine è “leggera” e la tecnica lascia spazio alla libertà dello scarabocchio. Un album che non teme la dissolvenza, ma la abbraccia: “I titoli di coda scorreranno sul fiume Tevere”, canta nell’ultimo brano, come se le sue canzoni fossero pronte a galleggiare via.


Ciao Amalfitano e benvenuto su IndieVision. Il titolo del tuo nuovo disco “Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è” è fortissimo, quasi cinematografico. Da dove nasce e che tipo di “morte” e “ritorno” rappresenta per te?

Il titolo è una scritta che ho visto su un muro (precisamente una foto di una scritta su un muro) e mi ha colpito perché non era fatta con la bomboletta, ma era incisa e la "e" finale aveva vari segni vicino. Non capivo se fosse effettivamente una "e" oppure una "è”. Inoltre, aveva un segnaccio che cadeva giù come se l'autore fosse tornato in vita per scrivere questa frase e poi fosse morto di nuovo, senza neanche finirla. Mi è rimasta in testa per anni. Parlava di me in qualche modo e di quello che sono stati i miei anni passati, ma anche di un tema a cui penso spesso: il cambiamento, la storia - nostra e di tutti - e di quante volte moriamo, magari ogni giorno come diceva Plutarco. Alla fine, ho optato per la "è" finale perché l'amore è ciò che ci fa tornare in vita sempre. Semplicemente "è", senza aggiungere nulla.


In che modo l’amore, che in questo progetto sembra un elemento al tempo stesso esplosivo e fragile, ha cambiato il tuo modo di scrivere o di vedere le cose?

L'amore cambia tutte le cose, perché è la tensione verso ciò che vogliamo e per arrivarci operiamo sulle cose del mondo. È un artigiano e un demiurgo, ma non è solo l'amore per una persona: è quel qualcosa che non è mai soddisfatto e che troverebbe ogni mezzo per raggiungere ciò che vuole.


In “Aznavour” canti che c’è qualcosa di leggero anche nella fine. Pensi che la leggerezza nasca dall’accettazione?

Si, assolutamente. Accettare non significa arrendersi all'evidenza però, bensì avere quel distacco ironico tipico delle grandi commedie, che fa vedere la fine come una tra le tante e, quindi, come un passaggio, un momento di cambiamento.


Nel disco citi Tarkovskij, Aznavour, Brel, Ciampi… un po’ come se la tua arte vivesse di ponti tra mondi diversi. C’è un’opera o un artista che ti ha accompagnato più di altri durante la lavorazione dell’album?

Uno in particolare no, però mi accompagna da sempre una grande quantità di libri e i loro autori magari mi ispirano frasi. Solo sensazioni che voglio portare in una canzone, oppure che voglio disegnare.


I tuoi disegni sembrano un diario parallelo alle canzoni, una calligrafia del pensiero. Cosa succede dentro di te quando un disegno diventa canzone?

I disegni e le canzoni partono dallo stesso luogo e come due strade che si biforcano prendono direzioni diverse, sapendo però che la città da cui partono è la stessa, popolata dalle stesse persone e dalle medesime storie.


Parli di “non-tecnica dello scarabocchio” come filosofia: c’è libertà nel non sapere fare bene le cose?

Io credo che da più di un secolo viviamo nel tempo dell'autodidatta, sicuramente per quanto riguarda le arti. Si tratta di un approccio diretto e non mediato da nessun filtro professionale, di un singolo verso la realtà. Uno scarabocchio non ha bisogno di tecnica: sono semplicemente io che interpreto ciò che mi accade, nella mia vita, nella mia testa o nel mio cuore.


“I titoli di coda scorreranno sul fiume Tevere” chiude il disco come una dissolvenza. Se davvero le tue canzoni dovessero galleggiare via, cosa ti piacerebbe restasse a riva?

Niente.



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