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Come raccontarsi con onestà di sentimenti, "Le cose che ho" di Jesse the Faccio - Intervista


Uscito in quattro puntate, così come i brani che lo compongono, "Le cose che ho" (Dischi Sotterranei) è l'ultimo lavoro in studio di Jesse the Faccio. "Credo mi vedi", primo brano del dell'ep ci parla del doloroso momento di separazione tra due persone, "Che resta" è la consapevolezza successiva sulle cose e sulle persone che restano o meno nel corso del tempo, sul cambiamento e sulla fugacità del tempo. "Cose che ho" si propone come un dialogo personale disilluso con la persona amata che nel corso del tempo si sta lasciando andare. La riflessione finale più ottimista è lasciata a "Come posso (collo)", con cui Jesse ci accompagna (anche visivamente, grazie ai particolari video di presentazione dei brani), ad una visione più spensierata e liberatoria. Quattro brani ben collegati tra loro, come fossero l'uno il continuo dell'altro, ma ognuno con una sua personale cifra stilistica, determinata soprattutto dalla forte vena di sperimentazione che Jesse osa in questo nuovo lavoro, tra loop di chitarra e musica lo-fi. Un capitolo a sé per la sua musica, come lui stesso ci racconta, ma in evoluzione rispetto ai suoi precedenti lavori, che vale sicuramente la pena di ascoltare.


Ciao Jesse e ben ritrovato! E’ appena uscito il tuo nuovo ep “Le cose che ho”, un lavoro che mi è sembrato già dai primi secondi molto personale, diretto e intimo, sia nei suoni che nei testi. Si percepisce la piacevole sensazione che sia stato scritto quasi tutto d’un fiato, come fosse liberatorio. E’ stato davvero così?

Ciao! Sì hai pienamente azzeccato. La parte del testo, che è arrivato dopo tutto l’arrangiamento musicale (cosa decisamente insolita per me), è stato scritto tutto di un fiato dopo un sostanzioso blocco di diversi mesi. Finire di scriverlo sì, è stato decisamente liberatorio.


Ripercorriamo insieme tutti e quattro i brani che lo compongono. “Credo mi vedi” è il singolo di apertura, una partenza leggera che esplode gradualmente in cui delinei la fase di separazione da un’altra persona, un momento molto delicato e spesso difficile da affrontare. È stato proprio un fatto di questo tipo ad ispirare la scrittura?

Si assolutamente, in verità ha ispirato il tutto. La rottura e la separazione durante il periodo di primo lockdown, quindi comunque in una condizione di solitudine pressoché totale e con la difficoltà anche di comunicare non potendosi muoversi e vedersi veramente, mi hanno portato in un secondo momento (perché inizialmente era solo un gran vuoto mio personale) a iniziare a elaborare il tutto anche con questo lavoro. Prima con la musica e successivamente appunto tutto d’un fiato con le liriche.


"Abbiamo qualcosa da dimostrare? Andarsene è importante almeno quanto restare” canti in “Che resta”, dove ti interroghi a cuore aperto sulla solitudine e sulla caducità delle cose intorno a noi. E’ un brano molto intimo ma dal significato quasi irrequieto che ben si contrappone alle linee lo-fi, ispirate al mondo di Lil Peep. Forse il brano più sperimentale del disco, ci racconti come nasce?

Nasce dopo essere stato stregato come molti dal fascino di Lil Peep appunto. In parte ovviamente dal personaggio in sé e dalla sua storia, ma soprattutto dal modo così lo-fi e veramente sgangherato di fare gli arrangiamenti però su beat potentissimi e con testi di una semplicità e intimità struggente. Sono andato in fissa totale e ho semplicemente messo giù un loop di chitarra (strofa e ritornello sono uguali) sul beat più hip hop che mi era stato mandato. Poi ho cercato di ricreare gli elementi che mi ricordavano di più quelle sensazioni provate nell’ascolto di vari brani dell’artista, ed è venuto fuori il brano.


In generale le atmosfere del disco, pur restando lo-fi come i lavori precedenti, si staccano dalla componente "più punk", almeno per quanto riguarda il ritmo: è stata un'esigenza tua dettata dalla voglia di cambiare, o è venuta da sé per qualche altro motivo? Ti reputi comunque soddisfatto di questa evoluzione musicale?

Sono assolutamente soddisfatto, credo comunque che “Le cose che ho” rimarrà un capitolo a sè. Sono stati 19 mesi molto molto complicati per me, dove sono cambiate davvero tantissime cose della mia vita pre pandemia e non solo ovviamente per colpa di questa. Insieme a me è pure cambiato un po’ il mondo. Se cambia la mia vita di conseguenza cambia la mia musica, vanno comunque a braccetto. Un disco nato dall’inizio alla fine in un momento così non può che essere diverso dal prima ma anche dal dopo. Terrò sicuramente degli elementi magari per il futuro, ma comunque credo rimarrà un lavoro a sé, come lo sono stati questi infiniti mesi passati.


“Cose che ho” è un dialogo, uno sfogo sentito verso una persona che ha significato tanto ma che si sta lasciando andare, che personalmente ho interpretato come l’analisi di un caso specifico di “Che resta". Ma, alla fine quindi, davvero non resta niente nel tempo?

È tutto chiaramente collegato, diciamo il filo conduttore è unico e i protagonisti sono principalmente due. Sicuramente qualcosa resta nel tempo, diciamo che dipende: per alcuni molto, per alcuni poco o niente. La paura di essere dimenticati per me è una cosa abbastanza pesante, non vorrei mai succedesse. Il tempo aiuta a dimenticare.


“Come posso (collo)” è l’unico brano più ottimista e meno disilluso a chiusura del disco: è un messaggio di positività nei confronti del futuro quello che vuoi lasciarci?

In parte si, come testo magari si avvicina un po’ alle mie cose passate, lavora più a immagini meno dirette diciamo. È una sorta di liberazione per me, come se avessi voglia e speranza di uscire da tutte le sensazioni trattate nei brani precedenti. La lunga coda strumentale finale a me dà libertà e quindi positività verso il futuro, verso un' uscita consapevole da tutto questo.


"Io voglio amare tutto quello che posso, come posso più che posso e se non posso? Posso" (da "Come posso (collo)")

Ogni canzone è accompagnata da un video che mi piace pensare come un “anti-video” che si contrappone al moto delle tue canzoni. Ci sei tu, in un ambiente casalingo, ogni canzone è infatti girata in una stanza diversa e ci sono i tuoi pensieri in musica. Una sorta di racconto visivo di sensazioni, un viaggio nei pensieri passando per ansia, irrequietezza, sensazione di tristezza fino a ritrovare un equilibrio e una via di fuga. Da dove nasce l’idea?

Nasce appunto dal voler rappresentare tutte le emozioni provate nei testi e nella musica dei brani. Volevo mettermi ancora più a nudo, anche davanti allo schermo. Per questo abbiamo pensato a un' inquadratura fissa fino al finale, unico momento diverso nell’Ep. Era un po’ l’unico modo per sintetizzare l’ambiente casa (dove è stato fatto tutto il lavoro), la chiusura di cui tutti siamo stati partecipi e i miei pensieri diciamo bui che mi hanno portato a scrivere questo ep. In più secondo me ha accentuato la solitudine e la depressione generale “costringendo” lo spettatore a guardare una sorta di loop di immagini molto statiche e ripetitive, facendolo contemporaneamente concentrare ed entrare meglio nei brani.


Ascoltando l’ep nel suo complesso alla fine si percepisce un legame tra tutti i brani, evidenziato anche da alcuni ritrovi musicali (come per l’intro di “Credo mi vedi” in cui si riprendono i cori di “Come posso”). Sono vari i riferimenti artistici che si possono cogliere qua e là nelle epoche e nei luoghi (sinceramente soprattutto stranieri). Hai qualche punto di riferimento che ritieni abbia influenzato particolarmente la tua scrittura in questo EP?

Certo, è tutto legato da dei miei ascolti diciamo ossessivi nel periodo nel quale ho iniziato a lavorare il disco. Avevo bisogno credo di comfort zone almeno musicale quindi mi sono rifugiato nel Battisti di “Anima Latina”, nella discografia di Lil Peep, in Alex G - uno dei miei artisti preferiti in assoluto - e in “In Rainbows” dei Radiohead, forse il mio disco preferito di sempre che amo ascoltare in diverse condizioni. L’ascolto ripetitivo, quasi ossessivo, di questi artisti è stato sicuramente il motore per l’ispirazione quantomeno musicale di tutto l’EP.



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