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Il potere della musica nell'affrontare le proprie paure: intervista ad Anna Bassy

Lo scorso 15 Ottobre è uscito "Monsters" (distribuito da Astarte), il primo ep di Anna Bassy, giovane artista italo-nigeriana che ha catturato la mia attenzione già dai primi minuti grazie alla delicatezza con cui riesce a giocare con la sua calda voce sulle note delle proprie canzoni.


Le origini africane nell'ep si fondono al soul, al pop, e a contaminazioni elettroniche e richiami folk con cui Anna si racconta e mette in mostra i suoi lati più intimi e nascosti, esorcizzandoli e rendendoli del tutto condivisibili. Un progetto musicale dalle venature internazionali che inizia a tracciare la propria strada con questo ep che la cantante sta portando live su molti palchi italiani proprio in questi giorni.


ll filo conduttore delle cinque tracce di Monsters è la paura nelle sue diverse forme. Le paure infantili, istintive, quelle che creiamo nella nostra testa che ci siamo fatti raccontare da lei stessa per scoprire meglio uno dei progetti artistici più promettenti al momento.



Ciao Anna e benvenuta su IndieVision! Partiamo dalle ultime notizie, è da pochi giorni uscito il tuo primo lavoro in studio, l’ep “Monsters” con cui ti presenti interamente ai tuoi ascoltatori. Raccontaci la sua storia, da dove è nato a come ha preso forma.

Ciao e grazie per questo spazio, innanzitutto! per quanto riguarda la domanda, i brani che compongono Monsters sono nati negli ultimi 5 anni e mi sono serviti per esprimere stati d’animo, indagarmi, cercare risposte. Ma la forma finale, il disco, l’ha presa nell’ultimo anno, quando ho scritto il brano che dà il titolo al lavoro, Monsters appunto. Con questa canzone mi è stato chiaro quale fosse il concetto che legava tra loro tutte le tracce. Ognuna è nata però modo diverso; credo di essermi trasformata con loro, man mano che scrivevo. Could you love me è nata solo come melodia e parole. This World accompagnandomi alla chitarra, Keep on singing seduta al piano. Questi primi tre brani, li ho poi portati in sala prove, dove insieme alla band (Pietro Girardi, Andrea Montagner, Pietro Pizzoli) li abbiamo arrangiati per il live, inizialmente. Per quanto riguarda Wind, Rain invece, l’origine è un arrangiamento di sole voci, quello che si sente all’inizio della traccia: in studio con il produttore Duck Chagall, siamo partiti proprio da qui, rendendo il brano più strutturato, ma preservando l’intenzione iniziale. Infine, Monsters la title track è nata nell’arco di una giornata, e la versione che apre il disco è molto vicina a quella che avevo in mente, tanto che alcune parti sono proprie quelle che avevo registrato in casa.


“Nell’abbraccio di così tante persone, i mostri fanno meno paura”: nell’ep, così come già il nome suggerisce, la paura è protagonista e con la tua calda voce le dai diverse forme, passando dalle paure infantili a quelle più istintive per finire con quelle paure da adulti più razionali. Potremmo dire che è un disco molto intimo e condivisibile, non è sempre facile ammettere le proprie paure, né tantomeno parlarne, figuriamoci cantarle. E’ stato effettivamente un modo per esorcizzarle?

È stato un modo per riconoscerle più che altro. Con Monsters e con tutti i brani al suo interno ho potuto farmi un’idea un po’ più chiara di quali fossero queste paure, i miei “mostri”, quelli contro cui combatto da anni, a volte senza vederli, senza rendermene conto. Le paure ci sono ancora, certo, ma ci sto dialogando, le sto conoscendo. E conoscerle è il primo passo per affrontarle. Per me poi, forse è più facile cantarle che parlarne. Questo è il canale di comunicazione che più mi mette a mio agio, che sento più vicino alla verità. Posso gridare le mie paure, ammettere i miei errori, essere più autentica possibile: la musica mi protegge.


In Wind, Rain c’è un tentativo di evasione dalla realtà nella figura del vento mentre in This World canti “I wanna find a place but out there in the street I just cannot feel safe”. Al contrario, c’è un luogo in cui ti senti al sicuro, un tuo rifugio personale?

Fortunatamente ce n’è più di uno. Innanzitutto, la mia famiglia, che è molto numerosa e affiatata, quindi ho sempre un posto dove andare a recuperare le forze. Un altro rifugio poi, è proprio quello di cui parlo in Wind, Rain. Il brano è un canto dedicato alla Natura, che mi ha accolta in tanti momenti di difficoltà. Cammino in un bosco o sto in riva al lago e mi sento piccola, ma allo stesso tempo, parte di qualcosa di grande. Questo mi fa sentire più forte. E sì, chiedo al vento di essere portata via, in alto, che in effetti può essere un modo per allontanarmi dalla realtà, ma anche per riuscire a vederla da una prospettiva diversa, con più lucidità. E infine, un altro luogo sicuro è la musica, forse scontata come risposta. Anche se ad essere sincera non lo è sempre. O meglio, io non le permetto di esserlo sempre. A volte mi dimentico di viverla in maniera naturale, simbiotica, e la carico di aspettative che mi allontanano dalla sua essenza, rischiando di farla diventare una prigione più che un rifugio.


Qual è la tua paura più grande nel vedere la società di adesso?

Vedo e sento tanto odio e violenza. Violenza nelle parole, nei gesti, nei pensieri. Questo mi fa spesso molta paura. Credo manchi la capacità e soprattutto la volontà di mettersi in ascolto dell’altro, ma anche di noi stessi, ad esempio per capire da dove questa rabbia e questo odio arrivino. Sarebbe un primo passo per affrontarli, ridimensionarli.


Vivi a Verona ma le tue radici partono dalla lontana Nigeria. La tua musica è un viaggio tra diversi generi e diverse contaminazioni musicali in un preciso equilibrio. Con la tua voce riesci a fondere diversi generi dal soul, al pop, a sound elettronici e richiami folk. C’è un genere in cui ti riconosci di più o da cui trovi più ispirazione?

Il mio più grande amore è stata la Black music. Il funk, il reggae, l’hip hop, il soul, l’R&B, il gospel. Quando ho cominciato a comprare i primi dischi, riviste musicali, ascoltare programmi radiofonici dedicati, era questo tutto quello che ricercavo. Qui mi sentivo rappresentata. Sicuramente è quello che credo che mi abbia influenzata di più, e mi rispecchia ancora oggi.


Passando al tuo background musicale, cosa ascoltava la piccola Anna Bassy bambina e cosa invece ascolti adesso?

In quinta elementare le Spice Girls erano la mia ossessione! E poi quello che mi facevano ascoltare gli altri…in macchina con mio padre, Celentano, Dalla, I Nomadi, Simon & Garfunkel; con mia mamma lo Zecchino d’Oro. Inoltre, avevo cugine e cugini più grandi con i quali passavo molto tempo: con loro ascoltavo i Lunapop ed Elio e le Storie Tese, U2, Litfiba.

Poi, crescendo come dicevo, ho scelto la Black music che ad oggi resta comunque tra i miei ascolti preferiti, ma cerco di stare con le orecchie aperte diciamo. Non verso un genere specifico, anche perché ora più che mai è difficile trovare generi “puri”, c’è molta contaminazione e questo a me piace. È proprio quello che cerco nella musica. Oltre a questo, mi piacciono le voci con una forte personalità, autentiche, e la musica che ha qualcosa da dire, che mi tocca nel profondo, quindi può essere potenzialmente di qualsiasi genere.


Porterai Monsters in giro per l’Italia fino a metà dicembre, partendo da Milano per arrivare a Torino, Roma, Mantova, Verona e tante altre città. Cosa porterai sul palco e che importanza ha il contatto diretto con i tuoi ascoltatori in questo momento?

Presenterò ovviamente Monsters, ma anche alcuni brani che non sono inclusi in questo EP, e qualche cover riarrangiata di artisti per me significativi.

Mi troverete sul palco a volte in duo, altre volte in quattro o cinque, in versione completamente acustica oppure un po’ più ricca di suoni elettronici. Mi piace avere più modi per esprimere la mia musica. Come del resto il live sarà diverso da quello che si sente sul disco. Ogni contesto ha potenzialità diverse, e il bello è poterle sfruttare tutte.

Il contatto con chi ascolta la musica, con un pubblico in carne e ossa davanti a te, è qualcosa che se riesci ad abbracciare, ti dà la forza per continuare. A volte è difficile capirlo, attraverso il filtro di uno schermo. Amo anche il lavoro in studio, ma il calore, l’emozione, che puoi trovare ai concerti, fa la differenza. È un banco di prova, e devo ammettere che per me non è sempre facile salire su un palco, prendere in mano il microfono, e alla fine quando scendi vedere ancor più da vicino i tuoi “interlocutori” ma può darti un’energia che poche altre cose sanno trasmettere. Ecco, questo scambio di energia, è qualcosa di prezioso.



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