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"Pianeta M'Arte": il mondo visto da due giovanissimi artisti - Intervista

Si chiamano entrambi Martino, vivono entrambi a Gubbio ed entrambi condividono un grande talento e una passione: la musica. “Pianeta M’Arte” nasce così, da una necessità artistica e da un’amicizia un tempo dimenticata e poi rinata all'improvviso per un obiettivo comune: fare un album insieme.


“Pianeta M’Arte” è l’elaborato artistico di due entità separate, M.A.B. (Maligno Amplificatore Biologico, Martino Tordoni) e Zac (Martino Paffi), rispettivamente un rapper e un producer giovanissimi e talentuosi. È un disco che in dieci tracce esplora tematiche diverse ma intrinsecamente legate tra loro: le apparenze che sembrano contare più di ciò che abbiamo dentro; la siccità artistica del music business, che tratta i propri artisti e le proprie artiste come prodotti da vendere; il peso dei media e delle loro opinioni velenose; e infine l’arte, la musica, che in tutto questo trambusto alla fine riesce a farci avere uno spiraglio di luce, un filo conduttore che si occupa di tenere tutto insieme, anche quando niente sembra avere più senso.


Simile al Voyager Golden Record, un disco per grammofono inserito nelle due sonde spaziali del programma Voyager e lanciato nel 1977 contenente suoni e immagini selezionate al fine di portare le diverse varietà di vita e cultura della Terra perché qualunque forma di vita extraterrestre potesse trovarlo e scoprire qualcosa su di noi, “Pianeta M’Arte” è lo sguardo alieno su una realtà tutt’altro che lontana da noi, legge il contemporaneo con rabbia, ma anche con una voglia contagiosa di cambiare il mondo.


Nell'intervista qui sotto, la chiacchierata con M.A.B., che ci ha spiegato la nascita e le tappe di questo viaggio spazio-musicale.


Ciao M.A.B! Tu sei solo una parte del progetto “Pianeta M’Arte”. Tu e Zac siete da considerare due entità separate, oppure possiamo considerarvi un duo?

Ciao! In realtà no, siamo due artisti separati che si sono uniti per un progetto. È iniziato per una necessità: volevo fare un album e mi serviva un produttore. A Settembre 2021 ho fatto una storia su Instagram chiedendo appunto questo, e Zac mi ha risposto proponendosi. Ci conoscevamo da piccoli ma mi ero completamente dimenticato di lui... Mi ha inviato dei beat da ascoltare ma lo ammetto, inizialmente non mi sono piaciuti. Non erano proprio quello che stavo cercando e gliel’ho detto, pronto a cercare un’altra persona più affine a me. Lui però, ostinato, è venuto da me qualche giorno dopo, dicendomi che aveva altre cose da farmi ascoltare. Così l’ho raggiunto a casa sua, ho ascoltato e sono rimasto a bocca aperta. Abbiamo subito deciso di fare un album insieme, anzi: abbiamo stabilito che M.A.B. e Zac avrebbero creato una coalizione per fare un disco.


“Pianeta M’Arte” rappresenta l’idea di un viaggio nel quale si va su un altro pianeta, o meglio: gli abitanti di un altro pianeta guardano la Terra con i loro occhi e la descrivono attraverso le canzoni. È nato prima questo concept e poi le canzoni oppure il contrario?

Il contrario. Sono nate prima le canzoni. Ho iniziato a pensare al disco come un modo per risolvere i miei problemi. Ho avuto un periodo molto strano e surreale. Volevo stare meglio attraverso la musica, ma poi mi sono accorto che gran parte delle persone stavano come me, che avevano gli stessi problemi. Volevo provare a vedere la stessa cosa con teste diverse, e in modo molto naturale questo approccio è diventato un concept album. L’idea nasce dal Voyager Golden Record, un disco d’oro lanciato nello spazio ricco di elementi sul nostro patrimonio artistico.


Possiamo dire che l’album nasce da una tua esigenza.

Esatto. “Pianeta M’Arte” è stato prima di tutto una necessità personale. Un’esigenza di fuga artistica. Ero intrappolato dentro un mio vecchio stile.


Qual era il tuo vecchio stile?

Pieno di sé e arrogante. Sia nelle rime che nei temi che portavo. Quando poi ho avuto un attimo per guardarmi dentro ho capito che ero un pezzo di vetro, mi spacco in continuazione. Sono delicato. Come dice “Non ha senso recitare la parte degli incompresi / con tutti dalla mia parte / con tutti così cortesi” (da “Prosopagnosia, n. 1” in “Prisoner 709”). Ho smesso di pensare a me stesso in quel senso. Ho capito di avere mille sfumature dentro e ho seguito questa intuizione per il disco.


Dieci tracce, dieci temi diversi, che in realtà sono anche tutti la stessa cosa: è una fotografia di un momento, di un decadimento generale. Ce ne parli?

Le tracce sono dieci colonne decadenti della nostra società. In “Be-stye”, letteralmente “Sii-porcile”, le bestie siamo sia noi stessi che i media televisivi e giornalistici. Ho notato tanta freddezza da parte loro nel raccontare cose che, in realtà, hanno distrutto le persone pur di fare audience. Questo concetto c’è anche su “Venduto”: produci il mio disco, ma poi ti scordi dopo un’ora… come se fosse tutto di passaggio. “BOOM!” per chi conosce la storia parla da sé: racconta le morti sul lavoro. “Parti di noi”, invece, ritorna allo stato brado dell’umanità, a una visione anatomica del nostro corpo fisico del quale, a mio parere, non ci rendiamo più conto. Come se ci avessero legato tutto tranne la testa per poterli stare ad ascoltare, per muoverci come vogliono. Il messaggio è che non dobbiamo accettare tutto così com’è ma lottare per cambiare le cose.


Prima parlavi di “teste diverse”. Scrivendo ti sei immaginato di essere tante persone differenti?

Sì. Mi spiego: per esempio, in “Neve” parlo di una ragazza che non esiste. Quando l’ho scritta avevo in mente semplicemente a un ragazzo o una ragazza che pensano alla persona che amano e vogliono dedicargli una canzone. Diventando tante persone diverse mi sono perso e ammetto di non essermi ancora ritrovato. Vorrei ritrovarmi facendo un altro album, più introspettivo, passando un po’ di tempo da solo con me stesso.


Qual è stato il ruolo di Zac?

Zac è stato il mio psicologo. I producer sono gli psicologi dei rapper, lo dico sempre. Si occupano di assestarlo, di affinare i suoi concetti. Io andavo in studio con un testo terrificante e lui mi diceva va bene, ora proviamo a renderlo un po’ più melodico… È stato davvero fondamentale. Ha fatto un vero e proprio miracolo sistemando “Apparenze”, un testo che mio padre aveva scritto per me quando ero bambino e si chiamava “Piccolo Marte”. Non doveva neanche essere nell’album perché per la prima volta cantavo... ma alla fine è diventato il primo singolo. Anche per questo devo ringraziare Zac, che mi ha convinto. Gli altri testi sono tutti miei, tranne le parti di “Neve” dove Zac canta, che sono state scritte da lui. Si è anche preso una grande responsabilità per la produzione di “BOOM!”, il pezzo scritto da me e True Sam, Samuel Cuffaro.


Samuel è un tuo caro amico che ha perso la vita il 7maggio 2021, nell’esplosione di una fabbrica della nostra città, Gubbio, che ha fatto in tutto due vittime e tre feriti. Il disco si apre con le sue parole e al suo interno c’è anche, appunto, il pezzo al quale avevate iniziato a collaborare insieme. Quanto è stato importante Samuel in questo progetto?

Samuel è stato sia il freno che il motore di tutto. Dopo la sua morte avevo deciso che non avrei più fatto musica. Ma poi a settembre poi mi sono ritrovato che sembravo un vecchio… mi sono detto che così non poteva andare bene, e sentivo che non andava bene nemmeno a lui. Per questo ho ripreso, e per questo è lui che ha fatto ripartire tutto. All’inizio volevo che il suo fosse l’unico featuring, una canzone che avevamo iniziato a scrivere in un momento in cui eravamo molto legati e che parlava di giustizia, un’altra colonna decadente. Il titolo “BOOM!” è chiaro solo per chi conosce la storia dell’esplosione. Al suo interno ci sono degli skretch di DJ FASTCUT. Gli ho raccontato la storia di Samuel in un messaggio su Instagram e lui ha accettato di partecipare.


Parlando di featuring, come tutti i migliori album rap ne è pieno. La cosa bella è che sono tutti tuoi amici: Gregorio Paffi, Beatrice Goracci... anche Shaone.

Esatto! Ho cercato solamente amici per i featuring. Persone che sposassero la mia causa. Non volevo pagare nessuno, ma non per una questione di soldi: volevo collaborare solo con persone che capivano che questa era la cosa giusta da fare. Non mi sarei mai messo a rincorrere qualcuno per farlo partecipare. Alla fine ho convinto tutti. Shaone (Paolo Romano) è il mio mentore, un visionario della vecchia scuola che conosco da quando ero bambino ma che solo crescendo ho capito essere un pilastro dell’hip-hop italiano e non semplicemente un amico. Abbiamo scritto “Calliope” insieme a lui e a Marasié, un altro amico che reputo il mio più grande esempio della nuova scuola, invece. Shaone è arrivato alle dieci di mattina dopo essere partito da Napoli alle quattro di notte. Abbiamo scritto il ritornello insieme a pranzo, abbiamo registrato, e alle sette di sera è ripartito. Un grande.


Hai qualcosa che vorresti che artisti più grandi di voi capissero?

Avendo fatto teatro per tanto tempo, essendo praticamente nato in un teatro, ho notato l’importanza degli sguardi e del contatto. Per questo preferisco fare i live per terra piuttosto che su un palco. Perché non mi piace vedere idolatrata una persona che sta sopra agli altri. Non è quello che cerco: quando parli alle persone hai delle responsabilità. Un giovane artista non può abbandonare l’idea di fare musica pensando che non andrà mai al San Siro. Ecco, vorrei che ci si abbassasse… che chi al San Siro ci è arrivato aiutasse gli altri a raggiungere i suoi obiettivi.




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