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Per EDDA dalla musica non si sfugge: come fare musica per tutte le vite - Intervista

La musica è un richiamo. Una cosa che quando nasci ce l’hai già cucita addosso. Un po’ come una voglia o il colore degli occhi. Per quanto tu ti possa sbattere a cercare di liberartene, rimarrà sempre lì, a ricordarti chi sei.


Stefano Rampoldi, in arte Edda, ad allontanarsi dalla musica ci ha provato nel 1996, lasciando i Ritmo Tribale nel mezzo del tour di "Psycorsonica". È stato in India, poi in comunità a disintossicarsi, poi a far ponteggi. Ma dalla musica, come dicevamo, non si sfugge, e nel 2009 Edda è tornato sulla scena con "Semper Biot" ("sempre nudo", in dialetto milanese), scritto a quattro mani con Walter Somà e prodotto da Taketo Gohara. Da lì vanta una nuova carriera solista arrivata ora al sesto disco, "Illusion" (Al-Kemi Records/Ala Bianca,distribuzione Warner/Fuga). Pubblicato lo scorso 23 settembre e prodotto da Gianni Maroccolo (CCCP, CSI, PGR, Litfiba, Marlene Kuntz), "Illusion" cristallizza i traguardi raggiunti dall’originale cantautore milanese, regalandoci undici brani sottili e fragili come petali dall’odore inebriante e vagamente allucinogeno, dall’armonia curata fino all’ultimo dettaglio, pieni tuttavia dei testi inconfondibilmente irruenti e sensuali di Edda, che sfuggono a ogni recinto, a ogni restrizione. La sua ultima pubblicazione è insieme a Ubba e Bond all'interno dell'EP "Non Venire Sul Mio Letto / Piove il Mondo", uscito lo scorso 5 maggio.


Tra spiritualità, reincarnazione e la simpatia che lo contraddistingue, Edda ci ha parlato di che cosa sia per lui la musica: un richiamo, appunto. Un marchio positivo, una calamita che non può far altro che attrarci verso di lei per poi potarci chissà dove. È anche un mezzo per portare bellezza nel mondo – il senso ultimo della vita. O perlomeno provarci. Per riuscirci, se non si è soddisfatti, ci sono sempre le prossime vite.


Il 23 settembre 2022 è uscito il tuo sesto album, "Illusion". Che cosa lo rende atipico rispetto al resto della tua discografia, secondo te?

Il fatto che Gianni Maroccolo abbia voluto usare me come chitarrista. Me lo aveva detto, ma io non ci credevo. È stato molto bravo: dai miei sgorbi chitarristici ha creato un bel sound armonico, facendo cose, schiacciando pulsanti… è un lavoro molto prodotto dove la sua mano si sente tanto. Mi sono affidato a lui, è stato bravissimo. Io sono così, abbastanza un sottone, anche nella musica. Però sono rimasto molto contento.


Ho letto che sei molto soddisfatto anche della tua voce.

Sì, sono soddisfatto. Non sono un grande estimatore di me stesso. So di essere ancora un brutto anatroccolo, un giorno verrà fuori il cigno, aspettiamo ancora qualche vita… ma ad oggi, dopo trent’anni da cantante, non ho nulla da eccepire sulla mia voce. In "Illusion" mi piace molto, mi ha colpito. Mi sono detto: caspita, ho questa voce così bella? Per le voci ho un erotismo. Impazzisco per il cantante dei Verdena [Alberto Ferrari, NdA] ad esempio. Quando lo ascolto provo un movimento erotico all’interno. Non pensavo di poterlo provare sulla mia voce, che non mi è mai piaciuta molto. Poi questo disco canto così bene anche perché ero un po’ preoccupato.


Preoccupato da cosa?

Ero preoccupato di fare una brutta figura. In parte l’ho anche fatta. A Gianni non ho facilitato la vita, anzi gliel’ho complicata. Soprattutto per questo fatto del suonare la chitarra. La suono da quando ho dodici anni, cosa che mi dà la patente di uomo più negato al mondo, ma ora la sto imparando seriamente. È una cosa che mi appartiene molto. Gianni non voleva soddisfare il mio ego, non gli ho mai proposto io di suonare, non sono mica matto… ma lui voleva questa cosa e un po’ è stato un limite, ma poi i limiti diventano pregi e lui sapeva a cosa andava incontro. Non pensava che fossi così negato, ma alla fine mi ha fatto vedere che si può fare tutto. È riuscito a far suonare la chitarra a Rampoldi Stefano!


Un traguardo da aggiungere al suo lunghissimo curriculum. Il titolo di "Illusion", invece, allude a Maya, il termine sanscrito che rimanda allo strato superficiale che ricopre la vera essenza delle cose. Cos'è l'illusione, per te?

Adesso la chiamano Matrix… io non so se ho capito cosa sia, ma credo sia un palcoscenico, come quando guardi un film. Ti immedesimi e ti riconosci con ciò che vedi, ma non sei davvero tu. Sei colui che guarda. Io in tutta la mia vita ho trovato molta difficoltà a inserirmi nel gioco “normale”. Ho fatto male tutto, pure il militare. E continuo a fare male tutto. Ho capito che forse è perché sono poco portato a vivere in questa dimensione. È da quando ho vent’anni che ho iniziato a pensarlo, e ora che ne ho sessanta rimango della stessa idea, che io non mi trovo bene qua, perché non riesco a produrre. Consumo l’aria. C’è gente che la mattina si alza, produce, fa qualcosa… a me sembra di essere un pesce fuor d’acqua, ma vado avanti per la mia strada, chissà dove mi porterà. È un po’ un sogno ad occhi aperti per me, la vita. Un sogno un po’ venuto male visto che avrei preferito fare il modello o l’attore… tipo un Damiano dei Måneskin.


Secondo te il fatto di fare musica, dischi, canzoni, non è un modo di essere produttivo, di dare qualcosa al mondo?

Sì. Il senso della vita per me è darle qualcosa di bello. Può essere anche un sorriso la mattina. Io ci ho provato con la musica… con scarsi risultati, ma almeno l’intento era buono e giusto, questo me lo riconosco. La musica mi piace da sempre tantissimo, ora mi sto attaccando a lei ancora di più. Ho deciso di rinnovare l’abbonamento anche per la prossima vita. Magari allora farò canzoni più belle.


Dici che questa non è la tua dimensione. Quale potrebbe essere?

In realtà, se potessi fare il patto con il diavolo direi no, ti prego non mi far rinascere, non me le accollo tutte quelle vite precedenti, non c’è modo di venirne fuori... Anche perché oltre a me c’è tutta la storia dell’universo, e non siamo nella sua primavera, anzi: siamo nel suo inverno e andrà sempre peggio. Allora, anche se rinascessi una combo di Steven Tyler e Micheal Jackson, l’atmosfera del mondo intorno a me non andrebbe a migliorare. Per cui, se posso evitarmi il prossimo passaggio lo faccio volentieri, che oltre alla musica ed essere l’uomo più bello del mondo è un mio obiettivo.


Facciamo un passo indietro. Hai definito "Fru Fru" (2019) come un disco con il quale volevi portare leggerezza.

Sì. Poi non ci sono riuscito. Ho sbagliato un po’ il focus. Non mi piace nessuno dei miei dischi, ma è uno di quelli che mi piace di meno. Era un mio tentativo di essere leggero, sempre nel senso di dare cose belle, di alleviare la vita, renderla più piacevole. A volte ci riesci, a volte no, a volte fai peggio… "Edda" ritengo sia una bellissima canzone, ma per il resto ho un po’ sbagliato il tipo di mood.


E "Illusion"? Che obiettivo ha?

"Illusion" ha raddrizzato il timone. Vediamo se sarà un successo. Perché io voglio fare successo, capito? Così a settant’anni mi faccio la plastica e divento come Damiano dei Måneskin. Da quando si è tagliato i capelli a zero mi sta un po’ meno antipatico, perché adesso abbiamo una cosa in comune. Non è una questione di narcisismo, è di nuovo un tentativo di dare alla vita qualcosa di bello, che può essere una canzone, una faccia, un corpo… che poi a me piacciono tutti, non devi essere Damiano, né Marylin Monroe. Proprio tutti, insomma, tranne uno.


Non mi dire che sei tu…

Eh sì, sono io. Anche se, in realtà, se mi chiedessero: vuoi essere l’uomo più bello del mondo o fare le canzoni più belle del mondo? Non avrei dubbi, sceglierei di fare le canzoni più belle del mondo. Poi direi dai, non fatemi troppo brutto dopo… anche se anche la bruttezza, se si è capaci di portarla, è simpatica…


Sei molto duro con te stesso.

La vecchiaia non aiuta a migliorare l’autostima. Ma è il momento in cui devi cercare di impostare un po’ tutto. Io credo nella reincarnazione. Mio padre ha 94 anni; mettiamo che io vivrò altri 34 anni. È tutto tempo da qui alla partenza in cui cercherò di fare le cose migliori, per ritrovarmele nella prossima vita. Per me è basilare. Ogni giorno che passa ho in mente di migliorare la pole position della prossima vita.


Troviamo la tua spiritualità di Hare Krishna nelle tue canzoni?

Sì, ma la tengo un po’ nascosta. Non voglio fare il Boy George della situazione.


Parliamo di come nasce una tua canzone. Leggevo che non ti piace essere definito un cantautore, perché per te prima viene la melodia, poi vengono le parole.

Accetto qualsiasi definizione. Adesso potete darmi di tutto, anche dello sguattero… mi va bene qualsiasi cosa. Le canzoni ti arrivano. Così, per karma. Infatti io al signore del karma vorrei chiedere, ma perché a me mandi le canzoni di merda e a Steven Tyler i capolavori? Mi accontento. Mi dico vediamo se ti meriti le canzoni belle. Le canzoni, come i pensieri, come tutto, sono già lì. Ti arrivano. Un po’ come ti arrivano le cose da Amazon. Tu le chiedi e in base a quelle che sono le tue capacità, arrivano. L’ho sentito dire anche da Micheal Jackson. Parlava in inglese, ma sono praticamente sicuro che abbia detto così.


Per quanto riguarda i testi, l’immaginario che crei è fatto di figure ibride, fluide. Passi dal maschile al femminile quasi senza farci caso. Anche tu ti vedi in questa fluidità oppure appartiene solamente al linguaggio?

È una fluidità sempre esistita. Fai una vita da donna, un’altra da uomo, una da ippopotamo, da angelo, da albero… tutto questo rimane dentro di te, nel tuo disco rigido. Figurati che casino che hai dentro. Io parlo al femminile perché so che l’anima è femminile; me l’hanno detto gli Hare Krishna. L’unica cosa che ti posso dire dei miei testi è che quando scrivo in quel momento lì ho già la melodia e devo solamente affabulare l’emozione. Devo trovare delle parole che veicolino quello stato di eccitazione e di piacere in cui mi trovo data dalla melodia. La prima cosa che esce fuori e che corrisponde al sentimento che sto provando è il testo. Come se tu stessi facendo l’amore con una persona e gli volessi comunicare a parole il tuo sentimento.


Fammi capire bene: la musica e la melodia sono l’atto del fare l’amore e le parole sono il cercare di comunicare l’emotività del momento?

Esatto. Servono a renderla intellegibile, comunicabile a livello razionale.


Cosa intendevi quando hai definito "Lia" una canzone “allergica”?

Accidenti, l’ho definita così? Allergica a me, forse. È una canzone che non reputo brutta. Il testo mi è venuto così. Eravamo in piena pandemia, nel momento in cui eravamo tutti chiusi in casa. La versione del disco è cantata in casa infatti, registrata con il microfono dell’I-Pad. Ho costretto Gianni Maroccolo a usare quella. Non posso dire che sia bella, perché l’ho fatta io, ma sono molto contento di aver continuato a suonare perché se avessi smesso trent’anni fa, quando ho lasciato i Ritmo Tribale, questa canzone non sarebbe venuta fuori, invece secondo me meritava di essere scritta.


Com’è cambiato Edda dai Ritmo Tribale a oggi?

Dal punto di vista stilistico forse canto un po’ meglio. Peggio non si poteva. Io vado bene al mercato dell’ortofrutta. La mia voce è un’arma contundente. Ora mi piace di più. Come composizione… qualche canzone bella l’ho scritta anche con i Ritmo Tribale. Il problema è che non ho avuto successo. Mi basterebbe fare successo una volta. Fare una canzone nazional popolare. È un riconoscimento, senti di aver dato qualcosa. È proprio il piacere che doni con le canzoni, nel dare qualcosa di bello.


Cos’è per te il bello?

Il bello è l’emozione. Caspita. Non lo so. La musica mi ha sempre emozionato, da quando ero un bambino di quattro o cinque anni. Non so di cosa sia fatta, se non di emozioni.


Dopo aver lasciato i Ritmo Tribale, nel 1996, ti si sei allontanato dalla musica per quasi tredici anni. Cosa ti ha portato a ricominciare?

Una delle poche cose che credo che siano vere, cioè il fatto che senti già nella vita per cosa sei portato. A sei anni mi piaceva la musica. A otto ho chiesto la mia prima chitarra. Sembrava un racchettone. A trentatré, dopo un bel percorso musicale, pensavo comunque di aver fallito con la musica. Mi dicevo: non sono laureato, non mi conosce nessuno… e lì ho sbagliato, perché io sono fatto per fare musica. Poi la faccio male, ma figurati il resto! Non potrei fare altro. È un dono; una cosa che mi corrisponde.


Cosa significa fare musica da tutta la vita e sognare di farla anche nelle prossime?

Be’, uno come me che l’ha sempre fatto male è ovvio che continuerà a provarci fino alla morte! Ma veramente, lo faccio perché anche se domani mi dicessero che non posso più scrivere canzoni continuerei a suonare in casa mia. Sono andato avanti così tanto perché non sono mai riuscito a essere contento. Voglio migliorare. La mia povera chitarra mi dice Stefano, suoni da trent’anni e suoni proprio male… non ti sei mai applicato… come uno che ripete a memoria l’alfabeto ma non sa dire le parole. Io le parole sto imparando a dirle ora, per questo mi dico: diamoci ancora dentro. Come Socrate. Il giorno prima dell’esecuzione con la cicuta lo andarono a trovare i suoi adepti e videro che suonava il flauto. Gli chiesero cosa stesse facendo e lui rispose: sto imparando a suonare il flauto. Eh, ma domani muori… ma come domani muori, io nella prossima vita voglio fare il flautista. Ecco, uguale. Era un piccolo Rampoldi.



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