Michelangelo Vood, cantautore che unisce nelle sue canzoni introspezione e sensibilità, ci presenta il suo primo album “Non c’è più tempo”. Attraverso le parole e le melodie di questo disco, Michelangelo esplora le sfide e le paure della generazione dei trentenni, tra pressioni sociali e il timore di non riuscire a realizzare i propri sogni. Con brani che spaziano dal pop anni 2000 al folk, l’album è una riflessione sincera su cosa significhi crescere in un'epoca dove il tempo sembra sfuggirci di mano. "Non c’è più tempo" non è solo un titolo, ma un grido di urgenza per chi, come Michelangelo, lotta ogni giorno contro le insicurezze e cerca la propria strada in un mondo sempre più frenetico. Ascoltando il disco brano dopo brano la sensazione che ho avuto è stata quella di avere tra le mani un disco scritto con cura e dovizia di particolari, sentimenti e sensazioni del tutto umane.
In questa intervista, ci parla della paura di non essere all'altezza delle aspettative che ci creiamo ogni giorno e del potere della musica di creare connessioni profonde, condividendo il suo processo creativo e il significato dietro alcune tracce dell'album.
Ciao Michelangelo e bentornato su IndieVision! Da poco è uscito il tuo primo album “Non c’è più tempo” che stai presentando in giro per l’Italia. Ti senti soddisfatto di questo lavoro?
Intanto ciao ragazzi, è un grande piacere risentirvi! Sì, Non c’è più tempo è il mio primo disco e come ogni primo disco avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. E’ un lavoro durato 2 anni, in cui ci ho messo dentro tutte le emozioni e le paure che vive un 30enne al giorno d’oggi. Temo che la mia generazione stia perdendo la voglia di sognare, sempre più spaventata dallo scorrere del tempo e dalle pressioni sociali. A 30 anni ci vorrebbero tutti già realizzati, economicamente stabili e magari pure sposati con figli. Che è un po' il percorso dei nostri genitori se ci pensi, e quello che loro, molto ingenuamente, si auspicavano per noi.
Nel disco rifletti molto le esperienze e le preoccupazioni della nostra generazione. Quali credi siano le principali sfide che questa generazione affronta oggi e come pensi che la musica possa influenzarle?
Credo che il potere dell’arte e della musica in particolare sia quella di aprire canali comunicativi puri e incorrotti tra persone che non si conoscono e che difficilmente si confiderebbero tra loro. Mi sta capitando in questi giorni di ricevere un sacco di messaggi da persone di tutte le età che mi raccontano delle loro sfide quotidiane, di come per tirare avanti e badare al sodo abbiano dovuto rinunciare ai loro sogni. Mi dicono di non commettere il loro stesso errore e mi spronano a non mollare. Nonostante vivere in una metropoli sia sempre più provante sotto tutti i punti di vista e l’avere un lavoro precario in questo non aiuta, non riesco ad arrendermi, è più forte di me.
“Non c’è più tempo per risalire, cambiare strada e poi sparire. Insegnami a domare la paura, a restare in bilico”. Per cosa non c’è davvero più tempo? Quale pensi sia la paura della nostra generazione più grande?
Per tante cose in verità. Oggi su due piedi ti direi che non dovrebbe più esserci tempo per la paura. Percepisco che le persone intorno a me sono paralizzate dalla paura, sono terrorizzate dall’incertezza che inevitabilmente vedono davanti a sè, e le capisco bene. Ma lasciarsi sopraffare dalla paura è solo l’inizio della fine. Quando si ha paura emerge il nostro lato più pericoloso, che d’altronde è identico a quello che accade nel mondo animale. Quando una bestia si sente in pericolo tira fuori i denti e diventa aggressiva, allo stesso modo l’uomo. Non dimentichiamo che siamo animali anche noi in fondo. E’ chiaro che il mondo intorno a noi non ci aiuta e spesso restare ottimisti è difficilissimo.
Di giorno sto lavorando come prof di lettere in una scuola superiore a Milano. Poter osservare da vicino le generazioni più giovani è un grande privilegio per me e mi duole dirlo, ma i ragazzi più piccoli sono estremamente cinici e disincantati, molto più di me e i miei coetanei alla loro età. Nei loro occhi non c’è più traccia di magia nè sogni, trovo sia gravissimo. Una società senza sogni è una società che ha fallito. Purtroppo si parla molto poco di questi argomenti e forse è arrivato il momento di fermarci un attimo ad affrontare la questione.
Ascoltando il disco si evince da subito una giusta e precisa attenzione per l’utilizzo delle parole e dei suoni, si sente lo studio che è stato fatto per portarlo alla pubblicazione. Come è stato dal tuo punto di vista il processo creativo di scrivere e registrare quest’album?
Dal punto di vista strettamente musicale avevo voglia di scrivere un disco quanto più vario possibile, che rispecchiasse i miei ascolti, altrettanto eterogenei. C’è un po' di pop anni 2000, che è quello della mia adolescenza (ingiustamente sottovalutato a mio avviso), c’è una matrice folk in alcuni brani, c’è l’indie, il cantautorato più classico. Oggi sento di essere tutte queste cose assieme e l’intenzione di essere fedele a me stesso ha fatto sì che le canzoni fossero specchio del mio sentire odierno. Ho avuto la fortuna di poter lavorare ai brani in studio con Giordano Colombo e con altri musicisti straordinari, come Nicolò Carnesi e Donato di Trapani. Lasciami ringraziare anche tutti gli amici con cui ho condiviso la scrittura di alcuni brani e tutte le persone che hanno contribuito in generale a questo disco. Non sembra e forse dall’esterno neanche lo si direbbe, ma per fare un album, seppure emergente, c’è un lavoro gigante dietro che coinvolge decine e decine di persone.
Nel brano "Millennium Bug" parli della tua esperienza di trasferimento dalla provincia a Milano. Cosa ti sta dando e cosa pensi ti tolga questa città? Se pensi ti stia dando o togliendo, ovviamente!
Sì, sono molto legato a questo brano e non è un caso che apra il disco. Millennium bug racconta della mia rivoluzione, mia e di tanti ragazzi che sono stati costretti a lasciare la propria terra e i propri cari per cercare fortuna altrove. Milano mi ospita da quasi 9 anni ormai, qui ho ricostruito tutta la mia vita e mi sta dando tanto. Si respira un’aria internazionale e questo è un aspetto che apprezzo. Al tempo stesso, non posso ignorare che subito dopo la pandemia siano emersi dei gravissimi problemi che stanno un po’ sfuggendo di mano alla politica. Due su tutti: il caro affitti e la sicurezza.
"Debole" è un brano che affronta apertamente il tema della vulnerabilità. Perché hai scelto di parlarne e quale messaggio speri di trasmettere a riguardo?
Esatto, e aggiungo di vulnerabilità maschile. Mi sento spesso un fallito ed un buono a nulla e avevo bisogno di dirlo, anche per esorcizzare questo stato d’animo. C’è la convinzione che essere un uomo adulto implichi mostrarti forte e inscalfibile all’esterno. Trovo sia una concezione superata e legata a stereotipi del passato. Quando si parla di emozioni giocare a carte scoperte premia sempre.
"2000 Anni" esplora il concetto di anime gemelle e destino. Credi nell'esistenza di connessioni profonde predestinate o credi che il rapporto umano sia principalmente casuale e tutto da costruire?
Sono molto fatalista come persona, credo profondamente nell’esistenza dell’anima e nelle sue stratificazioni. Mi piace pensare che ci siano incontri predestinati, storie che in qualche modo siano destinate ad intrecciarsi sempre, vita dopo vita. Sono anche molto romantico se non si fosse capito ahah
Visto che in una delle canzoni dell’album, Cinema Paradiso, ti ispiri ad un grande classico del cinema italiano direi di salutarci giocando un po’ con la fantasia. Se questo tuo disco fosse un film, di che genere sarebbe e chi sarebbe il protagonista?
Ahia questa è difficile. Direi che potrebbe essere a metà strada tra un film d’avventura e un film drammatico. Un film malinconico su un grande viaggio, un po’ come la vita di tutti noi se ci pensi. Stiamo ancora tutti lottando per trovare il nostro posto nel mondo. Come protagonista, visto che tanto stiamo lavorando di fantasia, ti dico River Phoenix.
Grazie di cuore del supporto, un abbraccio a IndieVision e a tutta la vostra community!
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