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Marco Castello e il funk siciliano generazionale di "Contenta tu"

Chi non ha mai sognato di aprire un album con “Mi hai disegnato un cazzo sul diario con le orecchie di coniglio e due occhi grandi”? Purtroppo per l’umanità abbiamo dovuto aspettare centinaia di migliaia di anni prima di poter sbloccare questo trofeo, grazie a Marco Castello, il famoso. Un album, “Contenta tu” (42 Records), che sembra un diario di ricordi distanti a cui si guarda col sorriso spezzato dalla nostalgia. È stato registrato un paio di anni fa al Butterama Studio di Berlino e prodotto insieme a Marcin Öz (The Whitest Boy Alive) e al produttore e compositore Daniel Nentwig.


“È possibile volere bene a quella voglia di somigliare a qualcosa che fa schifo, che fa desiderare di avere la faccia come un filtro di Instagram, che ci fa ambire ad essere tutti famosi, tutti invidiati, tutti guerrieri spietati, tutti i migliori, tutti americani, quando ci basterebbe guardarci un attimo attorno per capire che la nostra propria e luminosa bellezza è soltanto sommersa dalla cacca che ci facciamo e che ci facciamo fare addosso? Non saprei, a volte mi intenerisce, a volte non posso farne a meno, a volte me ne vergogno”.


Marco Castello, classe 1993, è un polistrumentista siciliano. Nella nostra intervista ci aveva raccontato un po' di cose di se e ci era parso un ragazzo sinceramente interessante, che superata la sua vena ironica fosse piuttosto sicuro di quello che faceva e voleva. Si sa, “la modestia, che sembra rifiutare le lodi, in realtà desidera soltanto riceverne di più raffinate.” E quelle lodi se le merita eccome. Passati i primi minuti di ascolto sembra chiaro a chiunque l’influenza enorme di Battisti e Pino Daniele nello stile castellesco, ma fermarsi qui sarebbe riduttivo, perché oltre la patina battistiana c’è molto di più. Questo album è uno spasso, ma procediamo con calma.


Partiamo da “Porsi”. “Che bello quando parte la cassetta con i dialoghi d’inglese” potrebbe essere un totem generazionale per chiunque sia nato dai '90 in su. Così come anche il sogno proibito di tutti: “un giorno sarò il re dei posti in fondo (…) comunque anche qui in mezzo non è male”. “Porsi” è un accogliente the caldo che ti introduce nella vita di un qualsiasi ragazzino dai 10 ai 15 anni: gite di classe come unica forma di ascensore sociale, cazzi sul diario per stregare ragazzine (che a quel punto, solitamente, erano ancora più interdette dall’artista disegnatore, tristemente incompreso), i maledetti dialoghi di inglese su cassetta che suonavano sempre distorti anche a volume minimo, i mixtape su cd con musica spacciata nei bagni col Bluetooth, il bidello con la tv. Insomma, una vita fa. Questo singolo già dalla sua uscita mi aveva lasciato un sorrisone ed occhi lucidi, e confermo che al 27esimo ascolto, la situazione non è cambiata. Ah che bella la vita col grembiule.


Cicciona” parte con quello che potrebbe essere il jingle di qualche talkshow ambientato nella domenica mattina di una famiglia italiana di fine anni 80 ma subito dopo ci rendiamo conto che c’è da battere il tempo col mento. Un brano che, dietro un titolo facilmente impugnabile al tribunale femminazi dell’inquisizione per le cause inutili (TFICI), nasconde un profondo amore per la vita nella sua forma più pura, libera da pregiudizi e preconcetti. “Che bello quando c’è la spesa da fare domani cuciniamo cose ciccione avà non mi incolpare mangiare è come scopare”. La vita è fatta di cose semplici e questo trascinante groove a suon di synth e linee di basso supercatchy te lo suggeriscono sottovoce.


Quando arrivo a “Luca” controllo di non aver dimenticato in coda su Spotify qualche brano del vero Battisti e scopro con piacere che è ancora il nostro Marco a cantare. La sua voce infatti ricorda davvero tanto le sfumature timbriche del nostro Lucio nazionale. “Luca” è un pezzo delicato come un soffio ma profondo come quei pozzi di campagna dove si sbirciava da bambini immaginandosi chissà quale triste fine faremmo cadendoci. Un brano d’altri tempi, di una bellezza stoicamente vintage, preziosa. Mi ci sono perso in non so quanti ascolti e dopo ognuno di questi ci trovavo qualcosa di diverso, da mio padre al figlio che non avrò mai. Ad impreziosirla ulteriormente ci si son messi i cori con Marcin.

“Com’è che ho sempre così tante cose da sbrigare dalla campagna con i polli a quella elettorale ci metto anche un liquore artigianale guarda qua che bella questa antica Singer da cucire la metto a posto così poi te la regalo” (da “Luca”)

Giunge il turno di “Torpi”, secondo singolo rilasciato. Un cassa che batte e una leggera linea di piano ci introduce ad una serie di immagini tratte da un passato remoto ed evanescente. Balli ridicoli, sorrisi speziati, invecchiati, destini che non si incrociano. Magari Marco e la protagonista dei suoi ricordi facevano schifo a ballare ma sono sicuro che ascoltando questa traccia farete fatica a trattenere braccia e corpo dal prendere vita propria: “sono già la tre forse dovremmo dormire ma sta canzone di merda non vuole finire.” Vi segnalo anche il videoclip di questo brano, letteralmente spaziale.

A “Palla” torna ad illuminarsi il mio schermo per un rapido check su nome e artista della traccia, anche stavolta tutto okay. La palla di cui si parla potrebbe essere un difetto, un sorriso, un ricordo, un vestito: non ci è dato saperlo. Le storie che Marco ci racconta sono spesso fumose e liberamente interpretabili secondo il nostro immaginario. Su un fragile arpeggio di chitarra e un organo a distanza si reggono equilibri delicati tratti da un infanzia che si mischia ad una età più matura in compagnia di qualcuno di speciale, dei riflessi trasposti dentro al vetro, delle processioni sul lungo mare, della neve in provincia lasciata sciogliersi al sole perchè nessuno sa sciare. Vita vera.

“Mia mamma fa le lumache distrugge una città la processione coi piedi scalzi al lungomare per la sua carità” (da “Palla”)

La marchesa” è una storia di synth e di fughe, di spiagge e di notti in viaggio, di ciliegie e di pomeriggi barricati in casa. Respirare sott’acqua è la chiave per vedere tutto chiaro, ovvero non vederci affatto e guardare quindi la realtà con altri sensi, quelli giusti, invece della solita e

sopravvalutata vista. Lode al merito per il ritornello, malgrado non sia un grande fan dei ritornelli, e per la strumentale in sottofondo: quanta vita!


Contenta tu” è la canzone d’amore più sincera del mondo, la più vera e limpida. Smettiamola di raccontarci stronzate sui viaggi dall’altra parte del mondo e sui tramonti instagrammabili: “qui è il posto più bello del mondo, senza avere visto mai nient’altro, contenta tu” e non solo, ma quant’era bello “che il sole tramontasse, camminare mano nella mano schivando le merde di cane.” L’amore vero non ha bisogno di vezzeggiativi e frasette da Baci Perugina. L’amore vero sta in tante piccole cose che ci fanno felici senza apparente motivo.


In “Villaggio” tornano a fare breccia alcuni dei difetti di cui Marco va più fiero: la tuttologia e la critica facile. L’amore per la Sicilia e ciò che di lei fa innamorare chiunque la viva torna a suggellare ogni verso, l'indiscreta e sublime anima di ogni brano.


Addiù” ci avvicina alla fine di questo viaggio dai colori pastello e lo fa immergendoci completamente in un inintelligibile testo in siciliano di cui, mi perdonerà l’autore, purtroppo ho capito poco. Il linguaggio della musica, fortunatamente, è invece universale, e ci pensano un piano e il Roland CR-78 di Marcin ad accompagnarci in questa blueseggiante passeggiata sincopata.

"È il giorno che un’analfabeta mi fa la morale arà che bolle il sangue o è solo per la dopamina che il mondo se la mina" (da "Dopamina")

Chiude il cerchio “Dopamina” che si rassegna ad una serie di frustrate riflessioni su analfabetismo funzionale, abitudini mondane di quarantenni in carriera, lotte per diritti a suon di umilianti e controproducenti interventi sui social. La triste consapevolezza che oltre alla poesia, nel mondo c’è anche un mare di idiozia con cui convivere.


Un album generazionale, di tutte le generazioni. Trasversale, potrebbe ascoltarlo mio padre e divertirsi quanto abbia fatto io. Parlo di divertimento perché è la parola che sintetizza meglio il mix di sensazioni che ho provato ascoltando traccia dopo traccia. Un album con dentro tutto, passato, presente e futuro, ma raccontati senza vezzeggiativi e senza i quegli aspetti più rituali e inflazionati. C’è il meglio della vita, della Sicilia, della giovinezza e della vecchiaia. Lo stile spiccatamente cantautorale è solo una licenza poetica: tutto in questo album in realtà parla di e per Marco. Gli va riconosciuto infatti il merito di aver reso in chiave squisitamente personale uno stile musicale che ad un orecchio superficiale si sarebbe potuto facilmente scambiare per plateale plagio. Non è così, e ringraziamo ancora una volta la Sicilia per averci regalato l’ennesimo talento musicale.


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