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Immagine del redattoreFederica Viola

Viaggio nei non luoghi di "WadiruM", il nuovo album del progetto Studio Murena - Intervista

Intervista a cura di Federica Viola e Nicola Lorusso.


Primi in Italia a provare il connubio tra jazz, elettronica e rap, lo Studio Murena è attualmente formato da Amedeo Nan (chitarra), Maurizio Gazzola (basso), Matteo Castiglioni (tastiere e synth), Marco Falcon (batteria), Giovanni Ferrazzi (elettronica) e Carma (voce). Lo scorso 12 maggio è uscito il nuovo album “WadiruM” (Virgin Music Italia / RDR Mgmt), prodotto da Tommaso Colliva e che vede la straordinaria partecipazione di Ghemon, Laila Al Habash, Arya, Danno, Enrico Gabrielli e Paolo Fresu tra i featuring dell’album.


Abbandonato il pianeta Utonian si giunge ad un deserto, “WadiruM”. L’uomo è trascinato nella sua infinita piccolezza, alla continua ricerca di sé stesso e di una realtà in cui riconoscersi che però resta solo un miraggio lontano, l’oasi.

Un’allucinazione visiva e uditiva calcata da un linguaggio tagliente e uno stile unico che unisce l'educazione jazz di alcuni componenti, l'elettronica di altri e la formazione rap controcorrente dell'unica voce.


Una crescita magistrale della band formatasi a Milano nel 2018, che ha trovato l'esordio strumentale con "Crunchy" (2018), l'omonimo Studio Murena (2021), che vede l'inserimento del rap di Carma, ed ora con "WadiruM", un concept album fantascientifico impreziosito dal lavoro di Luca Benedet (fotografo) e Riccardo Michelazzo (grafico).


Abbiamo avuto modo di fare quattro chiacchiere con loro durante il release party dell'album, tenutosi lo scorso 11 maggio all'Arca Milano.

Da dove arriva il concept dell’album, a metà tra il fantascientifico e il distopico? Qual è stata la scintilla che vi ha fatto direi “okay, quest’album dev’essere così”?

Il concept parte dall’idea di luogo, di spazio, ci affascina molto questo tipo di composizione sia testuale che strumentale, girare attorno all’idea di luogo. Nel primo disco c’era Utonian, che è un pianeta; in realtà abbiamo un po’ accennato il lavoro ma quel disco non era “pregno” di questo concetto, in questo caso invece siamo riusciti ad analizzarlo un po' di più.


In "WadiruM", brano omonimo dell’album, avete ripreso proprio la figura di Utonian. Come mai?

Utonian è una fascinazione verso un disco che ci ha portato moltissimo a questo progetto, ossia “Utonian Automatic” degli Isotope 217, gruppo formato da Jeff Parker e Rob Mazurek nella Chicago di fine anni ‘90. Abbiamo immaginato Utonian come un pianeta in contrasto con la “Murena”, che invece è qualcosa che sta in mare, per cui vedi da lontano la realtà. Qui invece c’è un’idea più concreta di spazio e luogo, tant’è che il nome del disco è un luogo esistente (anche se non ci siamo mai stati). Abbiamo ripreso l’idea del come può essere immaginare il deserto per una persona abituata a vivere in città, uno spazio totalmente differente. E questo gioco di contrasti, in primis a livello testuale, ha continui rimandi, e la stessa cosa accade anche a livello strumentale con inserimenti di musica etnica, grazie alle ritmiche del nostro batterista che, essendo peruviano, ha aperto ad un discorso di ritmo “festejo”, con cui si apre il disco nel brano “Mirago” che significa miraggio, altro rimando al deserto, un brano-illusione, carico di astrattismi. Anche in questo caso volevamo creare una contrapposizione forte con la metropoli, ad esempio nello scorso album c’era il brano “Long John Silver” che iniziando con “fermata porto di mare” rientrava nell’immaginario della città da cui volevamo distaccarci. Il primo pezzo è stato "WadiruM", e da quando abbiamo mandato il brano ormai il disco aveva quel nome, non poteva essere chiamato diversamente; ovviamente era molto interessante poterlo traslare in più modi, creare sfaccettature anche a livello strumentale, testuale, visivo dal punto di vista del live.


In che rapporto siete con la città di Milano e in generale con la metropoli? 

Ci sono aspetti differenti: parlando per chi è arrivato a Milano, 3 o 4 di noi, è stato un centro di aggregazione, perché ci siamo conosciuti lì, ci ha dato la possibilità di fare ciò che facciamo. In altre zone anche si può, ma naturalmente c’è un tipo differente di risposte, un altro tipo di vetrina, quindi arrivare a Milano e conoscere i personaggi che compongono ora il nostro gruppo, così come i tanti altri che hanno collaborato e continuano a collaborare con noi, ha avuto un’importanza grandissima. Parlando per chi è nato qui, il nostro disco è evidentemente pregno di Milano: sarebbe potuto nascere da un’altra parte ma insomma, si sente che c’è il cemento, il brutalismo, l’architettura del vivere qui. Non che sia più bella una cosa o l’ altra, anzi,  sono il primo che alle volte pensa di volersene andare, ma sono nato qui e in un certo senso è come se non me ne potessi mai andare per davvero, sentirei troppo la mancanza di tutto questo casino che ti gira attorno.


A proposito di brutalismo e di cemento, anche la cover dell’album riporta a questi concetti. Come la spiegate?

La copertina nasce da una collaborazione a tre mani tra il nostro fotografo; abbiamo sviluppato tutta la parte visiva all’interno di questa cava di marmo a Colonnata, sopra Carrara, grazie a una persona gentilissima che ci ha permesso di poter entrare in questo luogo difficilmente arrivabile. La copertina si è sviluppata da una foto fatta da Luca Benedet all’interno della cava, a cui si è aggiunto il lavoro del nostro grafico Riccardo Michelazzo con la parte di design. Alla fine abbiamo messo assieme tutte queste cose nella copertina del disco che in realtà è un mettere in movimento la staticità dello scatto e del luogo, per cui è stato usato un programma di video editing per animarla e poi fermarla. Questo movimento è visibile all’interno del testo proprio per l’effetto after-effect, e questo lavoro sulla matericità è stato fatto proprio perché pensiamo che all’interno del disco ci sia una matericità sonora stratificata e spesa da pezzo a pezzo. Proprio grazie al lavoro sulla stratificazione che è stato fatto si costituisce la più grande differenza tra questo e gli album precedenti, sia a livello di suoni che di rielaborazione strumentale e sulla voce.


Un altro concetto chiave del disco è il tempo. Oltre ad alcune date fissate, come il 16 agosto in “Mon ami” e il 7 novembre in “Origami”, ritorna il concetto del tempo che corre, mettendo assieme i pezzi. Usate la musica anche per “fissare” determinati momenti nella vita?

Sicuramente, tutto il disco rappresenta una fotografia di uno spazio temporale abbastanza preciso e inquadrato che è più o meno il periodo durante e immediatamente dopo il nostro primo tour. Il concetto di tempo rientra nei testi e figura in una maniera molto elastica, da una parte come denuncia all’isteria metropolitana della città di Milano, dall’altra parte è una figura che mi ha aiutato più volte in riflessioni che facevo sulla mia vita in generale, su cose che la attraversavano. Mi viene da dire che comunque il tempo musicale è una forma in cui spesso fare musica per Studio Murena trova una direzione: ci sono più brani rispetto al primo disco in cui c’è del rap fortemente in tempi dispari, quindi anche quello si fa bandiera della nostra sperimentazione; tutti i lavori di ritmica di cui parlava prima Maurizio, che ha fatto Marco sul disco, consolidano il nostro lavoro, la nostra ricerca e la nostra indagine sonora. Diciamo che la parola “tempo”, più che come concetto, rientra tantissimo in toto nel nostro lavoro, oltre al fatto che è oggettivamente l’amico-nemico dell’uomo per eccellenza, per cui è un tema su cui ti ritrovi tutti i giorni a fare i conti.


A proposito di indagine sonora e sperimentazione, quanto pensate che la vostra conoscenza tecnica dei concetti di armonia, data la formazione di alcuni di voi in conservatorio, sia stata fondamentale o necessaria per avere poi questi risultati? Secondo voi le due cose sono collegate? È possibile innovare anche “da profani”?

Certamente. Si parla tanto di conservatorio e di accademia ma tre di noi arrivano dall’elettronica, che è un po’ l’opposto del conservatorio, e in realtà grazie a quello abbiamo aperto i nostri orizzonti scoprendo che c’è tanto altro da raccontare a livello musicale e in svariati modi. Ovviamente c’è anche una parte molto più ragionata e didattica curata da Amedeo e Marco, che arrivano dal jazz, e in cui i concetti di armonia servono per fare questo genere di cose. La nostra musica è proprio il risultato di queste due anime, chi arriva più dal jazz e dunque ha queste conoscenze di base, e chi arriva dall’elettronica e quindi è più spinto a sperimentare e staccarsi da cose già “fissate”. L’unione di queste due cose ha aiutato entrambe le anime a controbilanciarsi. Il nostro jazz è un'attitudine che viene anche dalla musica elettronica in cui tutto nasce dalla sperimentazione, bisogna imparare a non incastrarsi in nessuno dei due mondi. 


Un altro concetto interessante è quello di “jazzcore”, territorio ancora inesplorato in Italia, nonostante l’esempio di artisti come Tyler the Creator o Kendrick Lamar negli USA. Quale influenze avete ricevuto voi e da chi di questo mondo?

Per coniare il termine “jazzcore” la mia influenza numero uno sono stati i Viagra Boys ai Magazzini Generali di Milano, un live folgorante nonostante non conoscessi nulla di loro, scoprendo poi in live un punk fighissimo e hardcore. Due ore dopo ho iniziato a scrivere testi e mi sono reso conto che il nostro lavoro su questo disco ha preso una piega molto più incupita, oscura e nervosa. Da quel punto di vista lì, non solo per le sonorità e il gusto artistico ma anche per la storia di alcuni di loro che, facendo il conservatorio e gli studi tradizionali hanno poi voluto distaccarsi fortemente; o io stesso che ho fatto il classico e dopodiché non ho più voluto studiare, mi sono ritrovato a fare rap in una dinamica molto controcorrente per quella che è l’aspettativa media di una persona. Ho pensato che noi un po’ siamo l’anti-accademia, un po’ l’accademia ci riconosce come “fighi”, un po’ siamo quelli trattati male dall’ambiente o comunque non compresi in molte dinamiche, e quindi ho cominciato a ragionare sul fatto che effettivamente facciamo qualcosa di molto underground, e da lì ecco il “jazzcore”.

Per il resto ascoltiamo davvero di tutto tutti quanti, prendiamo molta ispirazione dalla scena jazz UK che va adesso, come Kamaal Williams, Loyle Carner e Alfa Mist. Dopo un incontro in conservatorio sul jazz rap statunitense abbiamo pensato anche noi di unire le due cose, dopotutto studiavamo jazz e ascoltavamo rap, unire i due mondi come non ci era mai capitato di ascoltare in Italia ci incuriosiva; la stessa cosa è successa anche con i testi e il rappare su queste basi, ritrovandoci poi nel punto di incontro che è adesso Studio Murena.

Prima parlavate del clima molto più buio di questo album: voi la musica pensate vi renda più “lucenti”, nel senso positivo del termine, o più cupi?

Noi rendiamo la musica cupa senz’altro, ma la musica ci rende più lucenti sotto alcuni punti di vista. Suonare alla fine è un modo per trovare un equilibrio generale, anche a livello di semplice ascolto è una delle poche cose al mondo che riesce a provocare una certa risposta emotiva e alle volte anche fisica. In generale, soprattutto la musica dal vivo, ha un’energia fortissima che raramente si riesce a trovare in altre arti. È l’unica forma di arte che usa il tempo a suo scopo: la musica vissuta è vita vissuta dell’ascolto, della riflessione, di introspezione in un tempo dato, e questo è il suo forte.


Di questo album avete anche detto che si tratta di un'istantanea del viaggio di crescita fatto assieme negli ultimi anni, in particolare durante i tour. Quanto è importante per voi la dimensione del live?

I live sono stati catartici, tutto arriva a quello e per noi la musica è arrivare al live. Avere la possibilità di vivere un tour per noi è fondamentale, e questo è già il terzo che viviamo. L'istantanea di questo disco è un’istantanea di un periodo molto preciso della nostra carriera rispetto al primo album che invece si era sviluppato in più anni; abbiamo composto tutto nel giro di qualche mese e con l’idea precisa di voler arrivare a questo disco. Sapevamo poi che avremmo lavorato in studio con Tommaso Colliva, che è stato per noi uno dei primi step davvero grandi, quindi avevamo un po’ di pressione e ansia ovviamente, assieme all’amore e alla dedizione che puoi impiegare e che col tempo si trasforma in lavoro e passione. Il live, quando riesci a trovare quell’equilibrio, è stupendo, la connessione col pubblico fa passare l’ansia e tutto ciò che c’è di negativo.


Rispetto ai vostri lavori precedenti, una particolarità di questo album sono anche le numerose collaborazioni al suo interno. Come sono nate?

Il bello di queste collaborazioni è che sono nate in maniera del tutto spontanea. Negli ultimi tre anni sotto palco e dietro le quinte abbiamo incrociato tante delle persone che sono nel disco, da cui abbiamo ricevuto attestati di stima che subito ci hanno fatto pensare che è molto più funzionale inserire persone che già orbitano attorno ad un progetto, specialmente ora che è ancora piccolo, piuttosto che buttarne dentro altre dall’esterno. Ghemon è stato il primissimo magnate del gruppo dal punto di vista artistico,  Paolo Fresu è stato il secondo a scriverci su Instagram e per tanti di noi era un traguardo incredibile, esattamente come lo è stato per me (Carma, ndr) parlare con Danno, o ancora Laila, Arya e Enrico incontrati durante il primo tour e con cui abbiamo scoperto di avere una grande affinità personale e artistica. Un’altra cosa bellissima su cui ci ha fatto ragionare Tommaso Colliva è che è interessante pensare come non ci siamo arrivati da soli a far collaborare queste persone nel disco ma è stato tutto naturale perché si trattava più di amicizia che di interesse, oltre l’aspetto artistico naturalmente. Ognuno di questi artisti va a sottolineare un punto del nostro sound, va a richiamare qualcosa che era già insito e che loro vanno ad elevare, quindi è stato tutto in perfetta armonia ed equilibrio.


Nella vostra musica parlate anche spesso di temi di resistenza, consapevolezza e spirito critico. Quale emozione vorreste riuscire a suscitare nei vostri ascoltatori quando ascoltano un vostro pezzo?

Dipende da quale pezzo, secondo me l’emozione che scaturisce da quello che creiamo è l’emozione che ci abbiamo messo dentro noi nel crearlo, e questo è il bello della trasparenza e della genuinità del progetto. Scriviamo, ragioniamo un casino, studiamo, ma allo stesso tempo è tutto molto di impatto, di getto. A me fa molto effetto ascoltare pezzi del disco a distanza di tempo e sentire quanta emotività riesce a rievocarmi di quel dato periodo. In generale, una cosa che vorremmo far passare in qualche modo, è questo concetto musicale dell’empatia. 



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