“El Galactico”, i Baustelle e me, storia di un fan: ciliegina senza torta? - Recensione
- Moreno Bertolazzi
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 7 min
Lo scorso 4 aprile è uscito per BMG il nuovo album dei Baustelle, “El Galactico”, prodotto a quattro mani da Federico Nardelli e Francesco Bianconi degli stessi Baustelle.
Ed io è un mese che sto provando e riprovando a scrivere quel che state leggendo; non perché “El Galactico” sia un lavoro complesso, intelligibile o un altro aggettivo di questo tipo, ma perché credo che questo album sia stato concepito apposta per mettermi a disagio, per non essere recensito.

Ecco il nocciolo della mia frustrazione. Era il 2010, andavo in seconda media ed ero, nel miscuglio di follia che è la preadolescenza, al contempo un bravo ragazzino con degli amici simpatici e popolari e un nerd recluso che passava i pomeriggi a guardare minerali e leggere “Il signore degli anelli”.
La prima volta che sentii “Charlie fa surf” stavo facendo i compiti davanti a “Deejay TV”. Fu una folgorazione. Continuavo a essere lo stesso ragazzino, ma in quella band trovavo la ribellione che dei genitori fin troppo ragionevoli non mi avevano concesso. Mentre googlavo che cosa fosse l'MDMA, ero diventato un fan.
È più o meno da allora che volevo scrivere qualcosa sui Baustelle. L’ho fatto anche, per certi versi, su un profilo Tumblr ormai digitalmente morto e sepolto, per fortuna mia e di tutti quanti.
Insomma, volevo che questa cosa fosse una sviolinata a uno dei miei gruppi preferiti di sempre, volevo che a 25 anni dal primo album i Baustelle facessero il miracolo, volevo che tirassero fuori dal nulla il loro capolavoro. E volevo raccontarvelo, volevo raccontarlo a quel ragazzino, ancora vivo da qualche parte dentro di me, che 15 anni fa faceva i compiti davanti a “Deejay TV”.
E invece devo ammettere che “El Galactico” è senza dubbio l'album meno intrigante di tutta la carriera dei tre di Montepulciano. Anche se ho cercato per settimane di convincermi del contrario.
Ma lasciamo da parte questa mia piccola crisi esistenziale, lasciamo da qualche altra parte il “me tredicenne” a sorbirsi, soffrendo, una recensione che non vorrà ascoltare e torniamo al principio.
Il principio si chiama "Pesaro” ed è la prima traccia dell'album. Chitarre che fanno molto primi R.E.M. (quelli di Murmur e Radio Free Europe per intenderci) incorniciano una pezzo dal sound californiano, ispirato dal folk di fine anni ‘60 del “Golden State”, dai Byrds, dai The Mamas & The Papas. Il testo non è liricamente un granché, anche se mi ha strappato un sorriso in un paio di punti, per esempio i versi
"Ragazzi che fanno il video al proprio cazzo, alla realtà credendoli più grandi del normale"
introducono con la giusta classe un ritornello tematicamente specchiato rispetto alle strofe: se il primo è uno slancio d'amore, le seconde sono una critica verso la società, che vorrebbe essere acuta e dirompente, ma che sa di stantio, come se fosse stata chiusa in cantina a prendere polvere per degli anni. Non siamo partiti bene.
Segue “Spogliami”, il primo singolo tratto dal disco. Una produzione orecchiabile, ma già sentita e risentita, accompagna un testo più ispirato e puntuale rispetto a “Pesaro”, che racconta di un disagio squisitamente adulto: la ricerca della vita sotto le sovrastrutture, le scorciatoie che trascinano a fondo l’esistenza. E proprio perché è un testo “adulto” che funziona più di altri.
“Spogliami del desiderio di restare giovani”
È un mantra che parecchi cinquantenni nel mondo dello spettacolo dovrebbero adottare. Ma forse sono io troppo cattivo.
Un discorso simile si può fare anche per “L'arte di lasciare andare”, un altro dei singoli estratti, che soffre degli stessi identici problemi di “Spogliami”, solo in una forma più grave. Ancora una volta tutto molto orecchiabile, senza niente di musicalmente accattivante o nuovo, le vibrazioni californiane tendono a svanire pure quelle, uno “Yeah yeah yeah” sul finale che ricorda il Jarvis Cocker di “Babies” e poco altro. Nel testo, sicuramente meno convincente di “Spogliami” si parla di abbandono, di accettazione della morte, della fine delle cose come ce l'eravamo immaginate come il solo modo per andare avanti, per ricominciare a vivere; questa sarebbe pure un'idea interessante, adulta, che funziona…e infatti gli MGMT l’anno scorso ci hanno fatto sopra tutto un album, “Loss of life”, quello sì, stupendo davvero.
“Canzone verde, amore tossico” è una delle poche tracce musicalmente brillanti in un disco quasi del tutto appiattito su un pop-rock che sì, si lascerebbe pure ascoltare, ma di cui si può fare tranquillamente a meno. Si apre con dei synth meccanici e allarmati, un pezzo incentrato sulla crisi climatica e sull’inquinamento, un tema che punteggia tutto l'album, però raccontato dalla prospettiva parecchio banale di un dialogo tra vecchi e giovani. I coretti à la Beach Boys e l'assolo di kazoo sul finale impreziosiscono una canzone che manca di sostanza. Una ciliegina senza la torta.
“Filosofia di Moana” mi permette per la prima volta di parlare di una canzone di questo disco senza far soffrire il “me tredicenne”: è già un trionfo. Il ritmo incalza, la strumentale spinge, la voce di Rachele Bastreghi fa come al solito il suo egregio lavoro e si adatta a questo tipo di sonorità molto meglio di quella di Francesco Bianconi. Moana è Moana Pozzi, stella del porno anni ‘80, immaginata in ospedale nei suoi ultimi giorni che rinfaccia alla società bacchettona tutta la sua ipocrisia e malafede. “Il vero porno sono i vostri giudizi, il vostro autoerotismo è credervi migliori di me” sembra dire Moana.
“Ho trovato solo un modo di essere felice, so che tu mi capirai, essere adorati in questo grande vuoto atroce, carne in mezzo agli avvoltoi”
Uno dei poch brani davvero riusciti di tutto il disco.
“Una storia” è l'ultimo dei singoli che anticipavano il disco ed è anche senza dubbio quello riuscito meglio. È una ballata condotta da una progressione melodica già sentita ma che rende bene, dove ritorna la prospettiva adolescenziale dei primi dischi per raccontare un episodio di abuso e DNCII (Diffusione Non Consensuale di Immagini Intime) dal punto di vista della vittima.
“Non mi sento più le gambe se mi guardo nello specchio vedo gente e un sorriso inesistente”
Sul tema il gruppo toscano ci era già passato con almeno altri due brani: “La canzone del riformatorio” e “Contà l'inverni”, rispettivamente da "Sussidiario illustrato della giovinezza” (2000) e “Fantasma” (2013), nei quali però il punto di vista era quello maledetto, maschile, di chi abusa. Con “Una storia” si entra negli occhi di chi subisce e lo si fa soffrendo. Sicuramente non è il pezzo migliore dell'album, ma fa il suo dovere e lo fa molto bene.
Dopo due brani che hanno portato un po’ di slancio ad un disco arrancante in partenza, azzeccare il terzo di fila sarebbe davvero importante per prendere definitivamente il volo. E invece arriva “L'imitazione dell'amore”. Dimenticabile dal punto di vista sonoro, prova a rifarsi con un testo di critica al “maschile” che parte con tutte le buone intenzioni, ma che rimane comunque fin troppo morbido.
C'è poco da dire anche sulle due tracce strumentali: “Per sempre” e “Non è una fine”. Pur essendo un amante degli intermezzi strumentali negli album (per esempio, degli stessi Baustelle, “Fantasma - Titoli di testa”, è eccezionale), entrambi non spiccano particolarmente, anche se “Non è una fine”, che chiude l'album, è senza dubbio il migliore dei due.
Prima degli ultimi tre pezzi, vi dò un rapido aggiornamento sullo stato emotivo del “me tredicenne”, lo so che eravate in pensiero per lui, siete molto gentili, è una cosa che apprezzo molto di voi. Comunque sta male. Sono svariati paragrafi che sto parlando maluccio della sua band preferita. Dice che stava molto meglio due settimane fa quando scrivendo di “Non è una fine” ho buttato giù almeno dieci righe su come i cori in quella traccia specifica siano il simbolo dell'umanità intera che sopravvive all'apocalisse e su come questo la rendesse la più importante del disco. Pensate se mi drogassi. E pensate che prigionia sia essere "troppo" un fan, accontentare sempre il nostro “noi tredicenne”. Che poi si finisce a scrivere delle boiate che te le raccomando. Tipo quella dell'apocalisse e tutto il resto.
“Giulia come stai” è un altro brano discreto che parla di resilienza umana, in cui torna preponderante il tema dell'inquinamento, vagamente in salsa “ecoansia”, trattato questa volta molto meglio che in “Canzone verde, amore tossico”.
“Hai pianto troppo e adesso sai che mentre tutto brucia c'è un fiore che non muore mai se il mondo se ne fotte del nostro futuro, dei nostri guai tu non aver paura mai”
Rinvengono le sonorità californiane a cui si aggiungono dei barocchismi che non farebbero sfigurare “Giulia come stai” nella tracklist di “I mistici dell'Occidente” (2011).
La penultima traccia non strumentale è “Lanzarote”, la mia preferita di tutto il disco e l'unica insieme a “Filosofia di Moana” ad essere entrata stabilmente in rotazione. È una storia d'amore non più corrisposto, principalmente cantata da Rachele Bastreghi. Un brano dinamico, divertente e in qualche modo universale: a chi non è mai capitato di immaginare un ex in posti stupendi con la nuova fiamma mentre si è rimasti a schiattare di caldo e a morire dentro?
“Io vorrei tuffarmi nel mare solo per affogare perché tu non sai niente del mio cuore e la mente che si ostina a pensarti sforna immagini idiote immaginandoti in spiaggia a Lanzarote [...] Svuoto il frigo, faccio il bucato poi mi mangio un gelato e ti penso perdutamente”
Davvero divertente, e, come mi pare dicano i giovani: “Amo, troppo io”. Un ultimo dettaglio: la cassa dritta che spunta dal nulla nel finale è il cioccolatino sonoro migliore del disco.
L'album si chiude con “La nebbia”, un pezzo dai tratti classicamente cantautorali, BPM bassi e curate sonorità sinfoniche dove la voce profonda e suggestiva di Bianconi può dare il suo meglio. È l'unica vera canzone d'amore del disco e arriva alla fine, come per chiudere un cerchio aperto con i ritornelli di “Pesaro” (ve la ricordate “Pesaro”? No? Non siete gli unici). Il testo anche qui non è né interessante né particolarmente originale, anche se l’interpretazione di Bianconi lo fa sembrare meglio di quello che è. Vorrebbe essere un gran finale, ma la voce di Bianconi non riesce del tutto a salvare un pezzo davvero moscio. Mamma mia che fatica.
Alla fine se ve lo steste chiedendo il “me tredicenne” è sopravvissuto, è arrivato in fondo senza ribellarsi o fare altri danni. Gli ho spiegato che va bene così. Che fa bene a sentire così visceralmente la musica, che è quello il bello. Che un disco non cancella ciò che è venuto prima, anche se la scoperta della fallibilità dei nostri idoli sembra mettere in discussione tutto. E invece non mette in discussione niente, perché i dischi dei Baustelle che tanto ama non sono spariti, sono ancora sulla mensola dove li ha lasciati.
Concludendo: cosa mi porto a casa da questa crisi esistenziale di un mese in forma di recensione? Un paio di canzoni che finiranno facilmente tra le più ascoltate del mio 2025 e i tacos di un posto a Milano chiamato “El Galactico”, dal quale Francesco Bianconi ha tratto il titolo dell'album, che sono andato a provare per voi lettori e vi confesso essere proprio molto molto buono e non posso fare altro che consigliarvi, se siete in zona.
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