Abituati come siamo al piattume musicale di questi ultimi anni, non sembra quasi vero quando alle orecchie arriva un disco interamente cantato e composto da un giovane artista capace di mischiare sapientemente sfumature nu-soul, una scrittura semplice ma d’impatto e una potenza e ricchezza vocali davvero rare. Claudio Luisi, in arte Disarmo, è un cantautore astigiano che il 30 marzo ha pubblicato il suo disco di debutto, “In Anima” (Fonoprint), che, coerentemente con il titolo, crea atmosfere raccolte e notturne, capaci di grandi intensità. Si tratta di un lavoro molto coerente in se stesso, assai interessante nel sound e introspettivo nei testi. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui sul suo percorso musicale, sul suo nuovo disco e sulla voglia di tornare sopra (e sotto) i palchi.
Ciao Disarmo! Benvenuto su IndieVision. Come stai e come hai passato il tempo in quest’ultimo anno?
Ciao! Beh, io ho la fortuna di aver registrato l’album durante la pandemia, quindi son stato parecchio fuori casa, in studio. Inoltre lo studio si trova a Bologna, mentre io sono di Asti, quindi nemmeno vicino a casa, quindi alternavo questi due momenti. Non l’ho vissuta in maniera tragica, anche se comunque ci sono cose che mi mancano, come mancano a tutti… Anch’io sto entrando nella fase “non ce la faccio più”.
E a proposito di questo, sei nel mondo della musica già da anni: che effetto ti fa rilasciare il tuo disco di debutto proprio adesso, in un mondo ancora bloccato dalla pandemia?
Sicuramente non è il periodo adatto, è un po’ un salto del vuoto. Essendo comunque un artista emergente la sensazione la conosco a prescindere dalla pandemia, il fatto di far uscire musica senza sapere come andrà, affidarsi alle dinamiche della promozione eccetera. Resta il fatto che ho composto un album di cui son molto contento, e al di là di quello che sarà dopo resta per me un punto di partenza. È vero che ho fatto altri progetti musicali in passato, ma come solista, come Disarmo, questo è il primo lavoro, è un po’ una ripartenza. È un periodo sacrificato per me, per la musica, ma un po’ per tutti. Quindi si va avanti e si recupererà in futuro.
Come e quando nasci come artista e qual è stato il tuo percorso musicale?
È sempre una domanda a cui faccio fatica a rispondere, perché sono proprio cresciuto circondato da strumenti musicali: appena ho avuto l’altezza per arrampicarmi ai tasti del pianoforte ho iniziato a fare rumore, e non ho smesso da allora! Ti posso dire però che le prime band le ho avute intorno ai 16-17 anni, mentre questo percorso da solo è iniziato praticamente un anno e mezzo fa, quando è uscito “Pillole 2D”, il primo singolo. Poi sono usciti altri singoli, ora siamo all’album… Tutto sommato non è molto che faccio questo percorso da solista.
Hai studiato al conservatorio e sei un polistrumentista: quanti strumenti suoni?
5, ma forse dovrei dire 4 e mezzo perché la batteria l’ho lasciata da un po’ di tempo. La suonavo prima di andare a vivere da solo, ma adesso vivo in un appartamento e non potrei fare casino, perché sennò mi becco delle denunce o lo sfratto diretto. Nella produzione artistica del disco sono stato affiancato da Claudio Adamo, ma ho suonato tutti gli strumenti ad eccezione appunto della batteria, per cui ho chiamato un altro ragazzo a suonare che si chiama Luca Mignano.
Ma veniamo al disco, “In Anima”: com’è nato e com’è andato il suo processo di composizione?
È nato strada facendo, nel senso che raccoglie alcuni singoli che sono usciti nell’arco di questo anno. Ho pescato un pezzo soltanto da cose che avevo scritto anni fa, ovvero “Buio infondo”, mentre tutti gli altri sono arrivati in quest’anno di pandemia, anche se non parlo mai della tematica, anzi, cerco di parlarne il meno possibile, visto che ultimamente parliamo tutti solo di quello. Però all’interno dell’album c’è un filo conduttore di evasione dalla realtà, quindi in qualche modo anche questa situazione ha giocato un ruolo nella scrittura. A livello tecnico posso dirti che, rispetto al passato in cui scrivevo molto “chitarra-voce”, questo album è venuto tutto fuori suonando il piano. Ho riscoperto quelli che erano miei ascolti dell’infanzia che ho ereditato dai miei genitori, della musica soul e gospel.
Infatti in questo disco unisci sapientemente R’n’B e cantautorato italiano: quali sono le tue influenze musicali maggiori?
Di italiani nomino sempre i Verdena, anche se non si tratta proprio di cantautorato; sono un punto di riferimento da sempre, anzi sto aspettando l’album che continuano a rimandare! Poi come cantante soul, Lauryn Hill, che ha pubblicato un disco pazzesco (anche se purtroppo non ne ha fatti altri come solista) e che è sicuramente un’artista che ha influenzato il mio album insieme a Jeff Buckley e a James Blake.
Hai un pezzo preferito del tuo disco?
Faccio un po’ fatica a scegliere, forse in questo momento ti direi “Macerie”. È un pezzo nato in maniera strana: di solito scrivo sempre musica e parole insieme, nello stesso momento. Di questo invece il testo l’ho scritto in un quarto d’ora e poi ho detto: “chissà se ci sta in musica”; poi nel giro di mezza giornata (l’ho finito di notte) è venuto tutto fuori. In genere ci vogliono giorni per chiudere un pezzo, almeno nel mio caso. Inoltre secondo me è un pezzo abbastanza difficile da ascoltare, ha dei momenti anche molto diversi al suo interno. Sicuramente è il più difficile da cantare!
“In anima” è caratterizzato da atmosfere piuttosto notturne ed introspettive: la notte ha avuto un ruolo importante nella scrittura del tuo disco?
Più che la notte direi la sera. In genere, quando ho tempo di mettermi a scrivere dei pezzi, magari durante tutto il giorno non faccio altro che tirare giù delle righe e poi cancellarle, ma credo sia un processo che serve poi per arrivare la sera e avere le idee più chiare su cosa si vuole fare. Quindi a quel punto o mi viene qualcosa e poi lo ottimizzo durante la tarda serata e la notte, oppure butto via tutto e faccio passare un paio di giorni e ricomincio da capo, perché vuol dire che non era il pezzo che doveva nascere. Ho anche la fortuna di avere una cabina insonorizzata a casa, ci sto giusto io (è circa un metro quadro), ma anche quello mi aiuta: se voglio fare dei provini mi chiudo lì dentro e posso lavorare. Però sì, sicuramente questo disco evoca di più le atmosfere cupe.
Diciamo che di solito si hanno le idee più chiare la mattina, mentre invece tu le hai più chiare la sera!
O forse ce le ho meno chiare, è per quello che riesco a scrivere! Sono meno razionale. (ride) Poi, e credo sia una cosa che capita a tutti, di sera si tende ad andare più in introspezione, riscoprire paure che di giorno non ti sfiorano neanche. Nel disco c’è questo aspetto più introspettivo delle ore tarde, piuttosto che quello della mattina, quando uno si sveglia ed è assorbito da tutt’altro.
Direi anche che nelle tue canzoni c’è la dimensione del ricordo, ridotto in tanti frammenti di quelle che sembrano situazioni vissute.
Molti artisti affermano che le loro canzoni sono in parte autobiografiche e in parte no. Hai una canzone che lo è dall’inizio alla fine?
Sì, ad esempio “Bro”, che ironizza un po’ su questa figura manageriale all’interno di un’azienda che cerca di scalare le gerarchie. Io questa situazione l’ho vissuta: lavoravo per Sky, e mi ricordo che il rappresentante di area, una bravissima persona, arrivava da me e mi diceva cose tipo “devi trovarti una frase e convincere le persone che entrano qui per disdire un abbonamento a rifarne uno più costoso”; quel pezzo sfotte un po’ quella mentalità, ovvero quel circolo vizioso per cui devi lavorare per pagarti la benzina per andare a lavorare (anche perché lavoravo in un’altra provincia). Oppure anche “Pillole 2D”, che descrive il paradosso della vita attraverso i social, di sentire molto vicino le persone pur non toccandole più e non vedendole realmente; a volte si sanno i particolari più strani della vita di una persona, tipo cosa mangia o come si veste per uscire, ma non la vedi più. Vivo molto questa cosa, anche perché sono abbastanza anti-social come persona, e non riesco molto ad esprimere me stesso a mezzo social.
Di nu-soul in Italia non si sente mai troppo parlare, seppur si tratti di un genere estremamente interessante e intenso: cosa pensi di questo fatto?
È una domanda a cui so rispondere parzialmente, nel senso che io stesso prima di cominciare questo progetto avevo un po’ perso quegli ascolti lì, quindi ci sono rimpiombato dentro nel momento in cui ho voluto scrollarmi di dosso certi modi di scrivere che ho e di essere il più reale possibile. Potrei sbagliarmi, ma credo sia un genere un po’ più impegnativo: tendenzialmente ora siamo molto distratti nelle cose che facciamo, anche nell’ascoltare musica, si fa fatica a prendersi un momento per ascoltare con calma, per entrare davvero dentro un disco; tanto è vero che si è perso il concetto di disco, adesso è tutto “a singoli”; e poi devi iniziare a cantare entro i 10 secondi, sennò non va bene, eccetera. Credo sia una questione di attenzione. Comunque, c’è una scena R’n’B che sta tornando anche qui da noi.
Hai inciso il disco presso gli studi Fonoprint di Bologna, che sono stati lo studio di registrazione di tantissimi artisti che hanno fatto la storia della musica italiana: che effetto ti ha fatto?
Io ormai qua mi sento a casa, infatti ti sto parlando proprio dalla Fonoprint. Ma l’effetto è sempre molto bello, è uno spazio dove è stato possibile realizzare il disco proprio in questa maniera qua. Anche solo il fatto di avere un pianoforte a coda reale e non usare strumenti virtuali ha cambiato completamente l’approccio al modo di suonare. Per quanto io sia abituato, venire qua comunque è sempre emozionante. Dovrebbero essere 3 anni che ho firmato con loro, perché oltre ad essere uno studio fanno anche da etichetta. Ogni tanto si incrocia qualcuno di importante, solo che sto abbastanza sulle mie e li vedo solo passare. C’è un aneddoto di Vasco che l’ultima volta ha preso il monopattino elettrico a una persona che lavora qua (ride) Insomma, ci sono varie gag.
Delle tue esperienze in campo musicale, qual è quella che ricordi con più emozione? Ad esempio, hai aperto Vasco Rossi al Modena Park.
Sulla cosa di Vasco faccio sempre una precisazione, perché è vero, ero lì il 1° luglio 2017, ma eravamo su un altro palco, perché salire sul Main stage col pubblico di Vasco vuol dire prendersi delle bottigliate. Quello è stato un bel momento, abbiamo suonato alle 4 di pomeriggio, facevo musica elettronica con quel progetto ma ci fermavamo ogni 5 minuti perché le CPU andavano in ebollizione. Se devo dirti il momento più bello musicalmente parlando penso ai live, quando salivi sul palco e realizzavi che alcune persone erano venute anche non da dietro l’angolo per ascoltarti. Quelle sono le emozioni più belle, e la nostalgia ora è ancora più grande.
Cosa farai finché non si potrà tornare sui palchi?
Questa è una bella domanda. Sto cercando, sempre qui alla Fonoprint, di realizzare un mini-documentario che parla dell’album, al posto di fare i videoclip delle canzoni, quindi parlare un po’ di me e del lavoro che sto facendo. Questa è una cosa su cui proverò a puntare. Poi vediamo, non ho molte altre idee! Per questo mi fa piacere quando ricevo il responso di chi ascolta l’album, al momento mi resta quello.
Quando si potrà, dove ti piacerebbe suonare? “In anima” sembra un disco perfetto da eseguire in ambienti piccoli e raccolti, che in questo ultimo periodo sono anche quelli più in difficoltà.
Uno in particolare non te lo so dire. Ma è un progetto che si presta anche a situazioni piccole, tanto che si potrebbe suonare anche in trio (con pianoforte, basso e batteria). Mi viene in mente ad esempio il Diavolo Rosso ad Asti, una chiesa sconsacrata, un posto molto bello. La cosa divertente è che il fonico è sordo da un orecchio, ma le cose escono lo stesso bene. Poi c’è un bel pianoforte a coda, quindi non sarebbe male partire da lì.
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