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Dalla musica all'arte: Dodicianni ci racconta il suo favoloso mondo

Andrea Cavallaro in arte Dodicianni è un creativo eclettico: cantautore, pianista, compositore e artista. Inizia a studiare il pianoforte in giovane età per poi laurearsi al conservatorio di Adria. Nel 2017 conclude i suoi studi in Storia e tutela dei beni artistici e musicali, così da coniugare le sue due grandi passioni: Musica e Arte.

Ha all'attivo due dischi "Canzoni al buio" e "Puoi tenerti le chiavi" che lo hanno portato a collaborare con artisti del calibro di Omar Pedrini, per poi aprire i live di Vinicio Capossela, Thegiornalisti, Tiromancino, Modena City Ramblers, Calcutta e Lucio Corsi.

Nel 2020 torna sulla scena musicale con "Discoteche" e il 19 febbraio ci delizia con il suo ultimo singolo "Mio padre scrive per il giornale".

In occasione dell'uscita del suo ultimo brano, gli abbiamo fatto qualche domanda per conoscerlo meglio!


Ciao Andrea! Quando hai iniziato ad avvicinarti alla musica?

Ciao ragazzi, eh questa è una domanda difficile, mia madre è una cantante lirica, la musica c’è sempre stata, farei fatica a ricordare il momento preciso. I miei mi raccontano però che da bambino passavo i pomeriggi ad allungare il braccio e a premere, su questo enorme mobile, quei bottoni che facevano i suoni; neanche lo sapevo che si chiamava pianoforte.

Per fortuna è andata così perché col calcio e tutto ciò che ha a che fare

con lo sport ero e sono totalmente negato.


Perché hai deciso di chiamarti Dodicianni?

Dodicianni era il nome che mi dava un vecchio amico quando lavoravo in uno studio di registrazione per ricordarmi che avevo “rotto il cazzo con tutti questi richiami e correzioni, lo sappiamo che hai fatto dodici anni di conservatorio, signor Dodicianni”. E così l’ho tenuto.

In effetti all’epoca devo esser stato davvero un bel po’ pesante.

Il conservatorio, oltre che un’ottima formazione, ti innesta anche molti paletti mentali e un

buon paraocchi. Scusami ancora Luca.


Dopo aver fatto parte di alcune band come i Nos Avaria e Venice's Ring, la tua carriera da solista inizia con l'album "Canzoni al buio". La particolarità di questo album è il contesto in cui è nato. Nel 2012 sei partito come volontario per le tende dopo il terribile terremoto in Emilia Romagna, tanto che hai scritto l'album senza l'utilizzo della normale tecnologia che non permette di modificare le varie tracce. Cosa ti porti da questa esperienza e come è nato questo ep?

Wow! Non leggevo quei nomi da quasi dieci anni! Avete una redazione incredibile :)

Da quella esperienza mi porto dietro il rapporto con alcune persone che sento ancora oggi, dei ricordi a loro modo bellissimi e un disco che mi riporta ogni volta in quella piccola tenda monoposto itinerante.

Quell’EP è nato così, spontaneo, naturale, con una chitarra da 300€, sentivo che tutto ciò che c’era di artificioso doveva essere tenuto lontano, perciò quando sono tornato ho fatto alla vecchia: andavo in studio, schiacciavo rec e correvo a sedermi davanti ai microfoni; così per tutte le tracce e per tutte le canzoni.


Nel tuo album del 2015 "Puoi tenerti le chiavi" mi ha incuriosito una canzone in particolare: "La casetta rosa". Parla di una ragazza che lascia il suo paese per scoprire il mondo dello spettacolo, trovando la solitudine. Cosa ne pensi di questo mondo?

Diciamo che il mondo della musica, e dello spettacolo in genere, lo vedo un po’ come il rapporto delle persone col denaro: poche volte ho visto gente tanto ricca felice, è una grande corsa tra mille compromessi che è difficile da gestire, diventa molto spesso il fine.

Se penso ai 10 musicisti più affermati che ho conosciuto nel mio percorso, onestamente la parola “felicità” la userei davvero per pochi.


Oltre ad essere un musicista sei anche un performer. Nel 2017 hai creato dei ritratti musicali raccolti in "No Frame Portrait". Qual è lo scopo di questa opera e come hanno reagito i vari soggetti a questa performance?

In quella performance volevo provare ad unire l’arte performativa con la musica. Volevo capire fino a che punto si potesse comunicare attraverso questo linguaggio.

Se Marina Abramović riusciva ad instaurare un rapporto con le persone solamente con il suo “essere artista”, sarei stato capace di fare lo stesso con la musica?

Fortunatamente l’esperimento è andato molto bene ed è stato riproposto in molti festival e gallerie anche se ogni volta è una sfida.

È molto empirico come processo, ogni persona reagisce a modo proprio, c’è chi si commuove, chi si diverte, chi rimane impassibile, è giusto, ogni persona è diversa.


Nel 2020 sei tornato nella scena musicale con il singolo "Discoteche". In questa ballad ci sono molte immagini che richiamano delle situazioni intime che si creano nella pista da ballo. Con questa canzone cosa vuoi far notare al pubblico che ti ascolta?

Ma sai, hai detto bene, sono molte immagini, quasi piccoli quadri, non c’è un vero focus se non il comune denominatore dato dalla pista da ballo.

È tutto lì, è l’amore per quello che per me rappresenta le mie origini, per le cose che magari fino a qualche anno fa schifavo e trovavo estremamente provinciali, per poi

scoprire che sono tremendamente parte di me.

Per quanto mi riguarda, tutto questo è rappresentato dalle feste di paese essendo nato nella campagna veneta, e questo pezzo era un po’ il mio modo di farci pace.


Questa tua grande capacità di portare l'ascoltatore in questo mondo fatto di immagini attraverso la canzone, è presente anche in "Mio padre scrive per il giornale", il tuo ultimo singolo. In questo brano ci sono delle vere e proprie fotografie di una quotidianità fatta di silenzi, incomprensioni e parole mai dette. Secondo te cosa porta l'uomo a comportarsi in questa maniera?

Credo che alla base di tutto ci sia l’infinito bisogno che nutriamo di venire amati ed accettati. Questo ci porta a modificare noi stessi in funzione di altri, con le conseguenti frustrazioni, malesseri, silenzi.

Il dover piacere è davvero logorante. In questo pezzo la protagonista non trova il coraggio di rompere queste catene.

La mia speranza, quando scrivo un testo o più in generale un pezzo, è di lasciare anche in minima parte un velo addosso alle persone; disagio in questo caso, nella speranza che serva da sprone.


Sei un artista che attraverso la propria arte si mette in gioco per la difesa dei diritti umani. Basti pensare alla tua opera che ha fatto scalpore nel 2019 "Il peso delle parole" o anche attraverso la partecipazione a "Voci per Patrick"per l'anniversario dell'ingiusta incarcerazione di Patrick Zaki. In questi ultimi tempi le persone sono sempre più indifferenti nei confronti di queste tematiche. Da dove pensi che arrivi tutta questa indifferenza?

Penso arrivi dal fatto che non sempre “paghi” esporsi. Anzi, spesso in certi ambiti diventa quasi controproducente. Io penso semplicemente che ognuno debba sentirsi libero di scegliere come e cosa dire con la propria arte e i propri mezzi, sono equilibri delicati. Personalmente non sono mai sceso a compromessi con il mio bisogno di trattare questi temi, anzi, sperare di fare un briciolo di differenza è uno dei miei obiettivi.

Ho molta stima di artisti come Francesca Michielin per esempio che, nonostante un

pubblico generalista e tutto da perdere, si è esposta molto chiaramente in passato riguardo al tema dei migranti.

Per tornare alla mia esperienza in Emilia, per esempio, e a quanto ognuno la viva in modo proprio questa sfera, ricordo che in quei giorni a girare per i campi tenda, organizzando piccoli spettacoli, c’era anche gente come Gianni Morandi, i Modena City Ramblers e Vinicio Capossela, e tutti lo facevano in modo molto privato e non pubblicizzato.

Anche questo è attivismo.


Quali sono i tuoi progetti futuri?

Il primo obiettivo che ho è quello di proseguire con questa serie di piccoli racconti, magari pubblicando un Ep.

Ci stiamo lavorando, è un periodo ricco di entusiasmo e questo mi fa stare bene.

Che alla fine è ancora la cosa più importante.

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