top of page

Uno spazio sicuro nel quale rifugiarsi ballando: ecco MEDUSA - Intervista ai Queen of Saba

A cura di Luca Boccadoro e Daniele Saracino


"Ehy, ma ti va di fare qualcosa in studio?"

Un incontro a Venezia, Lorenzo che assiste ad un live di Sara ed ecco i Queen of Saba: un duo che se ne frega di quello che pensa chi non ragiona, una boccata di schiettezza e cassa dritta all'interno del panorama musicale italiano.


"Mi piace ballare tra i generi senza dovermi mai chiedere chi sono. Apro le mani mi abbandono, segui anche tu questo suono nuovo. La voce mi diventa bassa, senti che tira 'sta cassa. Baciami non mi interessa, sono il principe e la principessa"

Loro sono tutto e il contrario di tutto, non hanno genere e forma, la Regina di Saba aleggia sopra di loro e non è niente di più che la somma di entrambi. Tutto questo è espresso chiaramente nel loro secondo disco, "Medusa", che comincia con "Principe Regina", dove il non sapersi identificare è il dono che crea unione e comprensione all'interno di un mondo dove troppo spesso ogni incomprensione è utile a farsi la guerra. All'interno di questo progetto, completamente autoprodotto, c'è un'escalation di suoni che rimangono impressi e vi faranno ballare imperterriti. Passando per le preziose collaborazioni con altri due artisti che fanno della schiettezza il loro status symbol, come Big Mama e Willie Peyote, il sound sfrenato lascia spazio all'intimità di "Piccola inutile", il pezzo più dolce di cui ognuno ha bisogno.


"Che ogni tuo dito che tocco è un gradino. Ma io non salirò mai abbastanza. Sei una torre con in cima un giardino, lasciami entrare nella tua stanza"

Attraverso casse che esplodono e sentimenti che vengono approfonditi, il viaggio finisce con "Medusa", che dà il titolo al disco. Ma questo non è solo un disco, vuole essere anche "un invito a combattere le proprie battaglie senza timori, consapevoli di avere un Safe space, come il nostro progetto, in cui potersi riconoscere".


E di questi tempi è veramente prezioso trovare degli artisti che mettono a disposizione i loro strumenti e la loro risonanza per trasmettere messaggi di inclusione e comprensione, ne abbiamo parlato proprio con loro.


Come vi siete conosciuti e come nasce il vostro progetto?

LORENZO: è nato nel 2016, quando ho conosciuto Sara ad un live a Venezia. In quel periodo suonavo in un gruppo che si stava disgregando. Stavo iniziando a fare il fonico e a scrivere le mie cose. Ho approcciato Sara durante quel live, le ho detto “Ehy, ma ti va di fare qualcosa in studio?”. Abbiamo scritto e pubblicato qualcosa in inglese. Poi da lì abbiamo fatto moltissime date live, tra cui una all’estero. Adesso lavoriamo a distanza, perché io sono rimasto a Venezia, mentre lui è tornato a Torino. Tra l’altro, parlandone durante le interviste, ci siamo resi conto che molti pezzi dell’ultimo album sono nati proprio mentre eravamo in macchina insieme.


Queen of Saba, da dove deriva il nome?

SARA: Quando ci siamo conosciuti, a Venezia, io stavo studiando arabo ed ebraico alla Ca’ Foscari di Venezia. All’epoca stavamo studiando il Cantico dei Cantici, ed era venuta fuori la figura della Regina di Saba, che io avevo presente soprattutto per il discorso sul Rastafarianesimo. È una figura femminile che va oltre la religione ebraica ed è diventata un riferimento anche per la cultura reggae, per esempio. È stata di forte ispirazione per noi, una figura che non sono né io né Lorenzo, ma è un qualcosa che aleggia sopra di noi. Noi le diamo forma attraverso la nostra musica. Abbiamo poi ampliato il discorso intitolando i nostri album con nomi femminili, prima “Fata Morgana” e poi “Medusa”. Secondo noi, questo modo per uscire da quelli che sono i nostri ruoli binari all’interno di questo progetto, chiamandolo con una terza figura che ha a che fare un po’ con me e un po’ con Lorenzo, testimonia il fatto che è più della somma di me e lui. Anche per quanto riguarda il processo creativo nella stesura di testi, non c’è un percorso binario. È una cosa unica che nasce solo quando siamo insieme. La regina di Saba è la somma di questa cosa.


Il vostro secondo album si chiama “Medusa”, ed è completamente autoprodotto. Com’è nato questo nuovo progetto e come mai il nome “Medusa”?

LORENZO: Il discorso dell’autoproduzione nasce dalla necessità di creare un qualcosa di artistico, che andasse oltre la sola espressione musicale e tecnica. Proprio per questo ci siamo circondati di collaboratori che abbiamo scelto in maniera minuziosa. Detto questo, siamo artisti indipendenti e ci teniamo molto. Non abbiamo l'obbligo di far uscire il pezzo dell’estate, o di doverci autocensurare. Tutto ciò ci permette di essere liberi, ma anche di essere poveri!

Inoltre, io e Sara siamo co-fondatori de “La colletta dischi”, che non è una vera e propria etichetta, ma più un insieme di gruppi della nostra zona, nel Veneto, che si sono uniti mettendo insieme ognuno le proprie competenze. Io ho il mio studio, Sara ha le sue competenze social, e tutti gli altri contribuiscono con quello che sanno fare.

SARA: Sottoscrivo quello che dice Lorenzo sull’importanza di andare controcorrente rispetto alla narrazione della società che vuole che “sfondiamo”. Che poi cosa significa questo termine devo ancora capirlo. Collegandomi al discorso di "Medusa", invece, ci sono due cose che ci stanno a cuore in quanto persone che fanno musica. Una è la possibilità di fare questo come lavoro e viverci, cosa che tutti gli artisti dovrebbero poter fare senza stare a badare a quanti dischi vendono e al rientro economico. Ovviamente in un mondo ideale dovrebbe essere così, ma dato che viviamo in questo mondo di merda, dobbiamo in qualche modo trovare una via di mezzo. La seconda cosa, invece, è la responsabilità che ci sentiamo di avere come artisti che scrivono dischi e suonano live. Durante i nostri concerti cerchiamo sempre di andare oltre l’esibizione, di lanciare messaggi e cercare di lasciare qualcosa a chi viene a vederci. Ci è capitato che alcune persone ci scrivessero dicendoci che dopo averci visto live, avevano trovato il coraggio per fare cose importanti per la loro vita, come dire “Ehy mamma, sono gay”. Siamo in una posizione privilegiata perché siamo indipendenti, abbiamo un discreto seguito, e possiamo dire quello che ci sta a cuore. Perciò, ci sembra doveroso utilizzare questi strumenti, che non sono scontati, per lanciare dei messaggi positivi. Per forza di cose “Medusa” è diventato un album più politico rispetto al precedente, e non ce ne siamo neanche resi conto. Sarà stato anche per i miei due anni a Torino in cui sono entrato a contatto con realtà attiviste, fatto sta che abbiamo voluto rendere “Medusa” non una figura cattiva, ma una sorta di invito verso qualcosa di non conforme alla società, che proprio per questo va protetta. È anche un invito a combattere le proprie battaglie senza timori, consapevoli di avere un Safe space, come il nostro progetto, in cui potersi riconoscere.


Tra le tematiche dei testi di tutto l’album si palesa il filo conduttore del discorso dell’identificazione genere. Mi ricollego al concetto di Safe Space di cui avete parlato adesso, ma anche durante la presentazione del disco a “La Redazione” di Scomodo a Roma. Noi crediamo che questo album sia in qualche modo uno spazio sicuro in cui potersi rifugiare e confortare, ma quanto è difficile trovare un Safe space del genere nella vita e negli ambienti di tutti i giorni?

SARA: Io stessa ci ho messo molto tempo a trovarlo. Ora che sono a Torino sicuramente va meglio, ma certe volte mi sembra di essere in una specie di bolla. E mi chiedo molto spesso “Come faccio ad allargare questa bolla?” per poter abbracciare le persone che sono nella situazione in cui ero anche io tempo fa. La cosa che mi emoziona sempre tanto sono gli occhi dei più giovani dopo aver visto un nostro concerto. Mi emoziona perché riconosco quella sensazione, come volesse dire: “C’è quella persona sul palco che sta dicendo una cosa in cui mi ritrovo tantissimo”. Noi ci consideriamo persone accessibili, dopo i live ci trovati al locale a bere qualcosa, chiunque può scriverci su Instagram per qualsiasi cosa e noi risponderemo sempre. Abbiamo cercato di togliere quella barriera che di solito si crea tra artista e fan. Secondo noi i Safe space ci sono, ma non sono abbastanza accessibili. La soluzione sarebbe allargare la bolla.


All’interno di questo lavoro ci sono molti campionamenti musicali interessanti, come “Baby one more time” di Britney Spears, nella vostra “Cagne vere” con Big Mama. Ce ne dite qualcun altro? E poi ti chiedo, Lorenzo, com’è nata l’idea di inserirli?

LORENZO: Sì, nel disco ci sono tanti campionamenti e devo dire che ci ho preso gusto. Ci divertiamo molto nel processo creativo, siamo tutti figli degli anni ‘2000, tutti figli di Britney Spears, quindi perché no? Tra l’altro, in “Cagne vere” c’è anche un campionamento di Panjabi MC. Questi sono brani che ascoltavamo da adolescenti, e che toccano delle corde che difficilmente altri brani potrebbero fare. Fa tutto parte del nostro non prenderci mai sul serio. Anche se a volte è spiazzante perché Sara prende e si presenta con testi molto forti. Quindi poi succede questo misto mare. Ci sono dei campionamenti anche su “Medusa”, in generale mi sono divertito molto. E quando inizi, è difficile smettere.


ACAB (Amami come ameresti bambi). Com'è nato il pezzo e la collaborazione con Willie Peyote? Tra l’altro, avete presentato l’album proprio nel suo locale ai Murazzi di Torino. Che esperienza è stata?

SARA: All’inizio non avevamo pensato a lui perché pensavamo fosse troppo in alto per noi. Poi è successo che ci ha scritto dopo la nostra esibizione all’Eurovision Village a Torino, per farci i complimenti. Perciò abbiamo colto la palla al balzo e gli abbiamo inviato il disco. Lui ci ha risposto “Che bombe che avete tirato!”. E da lì gli abbiamo proposto “ACAB” perché sembrava scritta apposta per lui. È stato super disponibile per tutto, abbiamo girato il video ai Murazzi, davanti il suo locale, ed è stato bellissimo presentare il disco proprio lì dentro, cantando il pezzo insieme. Lui è entrato nel nostro mondo con molta attenzione e molta cura, non abbiamo dovuto forzare niente. Le sue barre si sono sposate perfettamente con il significato del brano, perché all’inizio ha voluto capire il significato della canzone. La cosa più bella per me è stata che Willie, dopo aver scritto la sua strofa, ha deciso di tenere la frase “Sei molto più bella di una gazzella che brucia”. E quella frase l’ho scritta io.


Piccola inutile è il pezzo più intimo del disco. È di un’intensità che ci stende. È stato bellissimo ascoltarla seduti accanto a te insieme agli altri, durante la presentazione dell’album a Roma. Com’è nato il pezzo? Immagino sia un’emozione forte cantarla ogni volta live.

SARA: Pensa che in ogni concerto in cui l’abbiamo cantata, quella canzone è stata un’esperienza a sé. Per quanto riguarda a Roma, siamo riusciti a creare quel momento grazie allo spazio de “La redazione”, che si è prestato perfettamente ad un momento così intimo, che è finito poi con quell’abbraccio virtuale. Il testo di questa canzone è nato intorno a febbraio 2022. Mi ero completamente dimenticato che esistesse. L’avevo scritto al volo mentre stavo vivendo un periodo felice con questa persona. Tra l’altro, il testo era all’interno di un libricino su cui scrivevo cose come la lista della spesa, i punti delle partite a carte ecc.

Mesi dopo ho riaperto quel libricino ed ho ritrovato il testo. In quei giorni Lorenzo stava componendo una melodia simile ad una ninna nanna. La canzone è nata in modo spontaneo, racconta un lato di noi che forse esce fuori solo in parte. Avevo detto che non avrei più scritto un album con canzoni d’amore, ma eccoci qua di nuovo. La risposta è stata molto bella, probabilmente questo lato “sottone” aveva voglia di uscire nel mondo.


Abbiamo notato come l’album parta molto carico, con un’elettronica più movimentata e testi più diretti e spinti, ed è come se tutto seguisse un flusso calante fino agli ultimi pezzi che sono invece più lenti e malinconici. Tutto questo è voluto?

LORENZO: All’inizio avevamo fatto una tracklist. Poi, riascoltandolo varie volte, mi sono reso conto che l’album era troppo spinto a livello di sound, arrivavo alla fine dell’ascolto con la tachicardia. Tutto questo perché noi siamo molto proiettati alla dimensione live, e quindi molte canzoni sono fatte proprio per farti muovere il culo. Per forza di cose abbiamo dovuto fare mille cambiamenti per evitare di far venire la tachicardia anche a chi veniva ad ascoltarci.



bottom of page