Dopo una lunga assenza, durata ben sette anni (nel 2013, infatti, usciva “Comedown Machine”), tornano gli Strokes, band che ha fatto la storia dell’indie rock in tutto il mondo, con la loro ultima fatica, “The New Abnormal”.
Parliamo di un disco abbastanza sostanzioso, composto da nove tracce per una durata totale di 45 minuti, un lavoro in cui riconosciamo il mood tipico della band senza però avere l’impressione che si stiano ripetendo, che ci stiano proponendo qualcosa di già sentito.
In apertura all’album troviamo “The Adults Are Talking”, in pieno stile Strokes: sono suoni che riconosciamo, sono familiari per chiunque seguisse la band da anni, e questo pezzo diventa quindi un ottimo biglietto da visita anche per gli eventuali ultimi arrivati, mostrando l’identità del gruppo. Gli ultimi trenta secondi della traccia, che raggiunge i cinque minuti, sono riempiti dal fade out e dai suoni registrati in sala prove a chiudere la canzone.
Continuiamo su questa scia anche con “Selfless”, suoni tipici ma molto curati, la voce di Casablancas (che raggiunge anche degli acuti notevoli) condisce la canzone con una dolce malinconia.
“Brooklyn Bridge To Chorus” invece diventa uno stacco ballerino e movimentato, con i synth in apertura (che vengono ripresi anche per tutta la durata della canzone) che rimandano inevitabilmente agli ‘80s e un ritornello piuttosto catchy che si canta facilmente; non a caso, questo pezzo è stato scelto come terzo singolo in uscita anticipata sul disco.
A seguire “Bad Decisions”, altro singolo, forse uno dei pezzi che ricorda di più i vecchi singoli universalmente famosi, soprattutto per quanto riguarda il ritornello, che, tra l’altro, sembra aver preso qualcosa anche da “Dancing With Myself”, celebre hit di Billy Idol (eccoci servito un altro richiamo agli anni ottanta).
“Eternal Summer” è una traccia molto lunga, contro le attuali logiche attuali, sei minuti abbondanti che la band sfrutta al massimo per esplorare diversi mood. Si inizia con una strofa dall’atmosfera radiofonica, oserei dire, interrotta però un cambio d’umore, molto più aggressivo, dopo qualche minuto: la canzone procede così, alternandosi fra questi due diversi stili, per poi stupirci di nuovo verso la fine, nell’ultimo minuto, in cui i suoni si incupiscono e si fanno decisamente psichedelici.
Menzione speciale per “At The Door”, il brano seguente, scelto della band come primo singolo, e non fatichiamo a capire la motivazione di questa decisione. La tastiera iniziale ci accompagna per tutta la strofa e ci conduce al ritornello, che si apre inserendo cori in sottofondo, chitarre e basso, in un insieme che mi ha quasi commossa. Scelta coraggiosa quella di non inserire la batteria per la prima parte della traccia, coraggiosa soprattutto perché parliamo del primo singolo estratto dall’album. Sono cinque minuti che volano, pieni di elementi diversi: ad un certo punto entra la cassa, gli archi e le chitarre effettate, accompagnate dalla voce di Casablancas che in questo pezzo risente (in positivo, ovviamente) dalla precedente collaborazione con i Daft Punk.
Ci avviamo verso la fine del disco, con “Why Are Sundays So Depressing”, un pezzo decisamente alla Strokes, a cui è facile affezionarsi:
I kinda miss the nine to five / do those things that you can't hide
Come ti capiamo Julian, ora che questa quarantena sembra non avere una fine.
Segue “Not The Same Anymore”, in cui l’eleganza della voce e della linea melodica nella strofa mi porta alla mente gli Arctic Monkeys di “Tranquility Base Hotel & Casino”. Chissà cosa ne pensa Alex Turner, che proprio in “Star Treatment” (la prima canzone del suddetto album) affermava di voler solo essere “one of the Strokes”.
Chiude l’album “Ode To The Mets”, una ballad in cui quella che pare essere una chitarra super effettata strizza l’occhio all’hit di Anastacia “Left Outside Alone” (chi di noi è degli anni ‘90 capirà a cosa mi riferisco): un gioco intelligente, prendere una melodia conosciuta all’ascoltatore per poi farne tutt’altro, in questo caso un’ottima chiusura del disco.
Tirando le somme, “The New Abnormal” è un disco che funziona, in cui gli Strokes dimostrano cura per i suoni e voglia di sperimentare, mantenendo integra la propria identità. Non hanno fatto mancare nulla all’ascoltatore, con le ballate lente, i pezzi movimentati ripresi dal passato e le tracce più emozionanti, assente solo, forse, il classico singolone che un pubblico più pigro probabilmente si aspettava. Per chi invece è amante dell’ascolto del disco in quanto tale, questi quarantacinque minuti scorrono senza appesantire, e arrivati alla fine viene voglia di ripartire da capo.
Bentornati.
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