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"L'ordine delle cose da dire", il ritorno di Postino dopo quattro anni di silenzio - Intervista

A cura di Edoardo Previti e Federica Viola


Oggi, 1 dicembre, esce "L'ordine delle cose da dire" (distribuzione Ada Music Italy), il nuovo album auto prodotto di Postino, nome d'arte del fiorentino Samuele Torrigiani.

Il cantautore, noto ai più per l’esordio bomba con "Latte di soia" nel 2018, aveva salutato la scena musicale circa quattro anni fa, a seguito del suo ingresso alla scuola di specializzazione in psichiatria.


Dimentichiamoci i synth a cui ci aveva abituato Postino: "L'ordine delle cose da dire" è un album che spoglia l'artista (e l'ascoltatore) dell'elettronica più serrata per fare spazio ad elementi orchestrali nuovi e maggiormente acustici che fanno risaltare i testi come non mai. La penna di Samuele sembra riprendere esattamente da dove ci aveva lasciato quattro anni fa, torna ad avere qualcosa da dire e lo fa egregiamente.



I testi affrontano temi come solitudine, perdite, caos, universo e relazioni con la stessa delicatezza ed empatia che ci avevano fatto affezionare ed innamorare al Postino degli esordi. Anna non ha più vent'anni, i problemi e le priorità sono cambiate, il tempo passa sempre più velocemente e ogni volta si cerca di afferrare stralci del passato guardando al futuro con diffidenza. Cambia l'abito nella produzione, ma l'anima dei brani resta la stessa, vuole farsi sentire e riesce a farlo, anzi, grazie a questa nuova veste musicale l'ascoltatore riesce più facilmente ad immedesimarsi nelle storie di vita vissuta cantate dal cantautore.


In occasione dell'uscita de "L'ordine delle cose da dire", abbiamo avuto modo di ascoltare in anteprima l'album e parlarne con Samuele, scoprendo alcuni retroscena sui testi, cosa lo ha spinto a tornare, il suo approccio al palco e molto altro.


Ciao Samuele e benvenuto su IndieVision! Quattro anni dopo la pubblicazione del tuo ultimo singolo, "Mi fai venire", hai scelto di autoprodurre un nuovo album, "L'ordine delle cose da dire". Dopo aver ascoltato il brano "Intro (manifesto)", che ha annunciato il tuo ritorno sulla scena, volevamo sapere: quali sono i fattori principali che ti hanno spinto a tornare?

Principalmente avevo delle cose da dire. In questi anni di lontananza forzata, a prescindere dalla specializzazione, avrei messo in pausa per un po', altrimenti entri in quella ruota in cui fai un album all'anno solo perché sei obbligato dall’industria musicale o dall’agenzia di booking. Almeno per me una cosa del genere è difficile, perché i brani li scrivo se vivo qualcosa, se mi succede qualcosa, e tirare fuori un album all’anno significherebbe vivere dieci vite differenti e credo sia impossibile. Poi sfoci nella non sincerità, nel raccontare robe inventate perché ti sei messo lì a tavolino a creare il brano che deve andare e funzionare per forza. Questo lo percepisco nei brani degli altri e volevo evitarlo. Poi c'è stato il discorso della specializzazione in psichiatria, non sapevo che il contratto avesse un'esclusività, per cui non puoi avere altri tipi di contratti in essere, e quando l'ho scoperto ovviamente dovendo scegliere tra queste due strade mi è sembrato più giusto terminare con la formazione universitaria su cui avevo investito tutto e che era sempre stata il mio primo lavoro. Mi sono messo in pausa e i primi due anni non ho scritto niente, ho avuto una fase di rigetto per cui mi sono concentrato solo sull'università e il lavoro, la scuola di specializzazione poi ti assorbe talmente tanto che probabilmente pur volendo non ce l'avrei fatta a mantenere attive le due carriere contemporaneamente. E poi dopo due anni, piano piano, com'era nato tutto con "Latte di soia" durante gli anni di medicina, a fine giornata magari mi veniva voglia di prendere la chitarra e buttare giù qualcosa; la chitarra era nella custodia, polverosa, e giorno dopo giorno ho ricominciato a prenderla sempre più spesso. Per natura poi sento la necessità di esorcizzare il dolore e lo faccio scrivendo, e in questi anni mi sono capitate varie cose per cui ho sentito la necessità di raccontare cosa mi stava capitando. Durante la pandemia sono nati alcuni brani, e dopo averne accumulati un po', pensando a che forma dare ad un nuovo progetto, per evitare quelle dinamiche mi avevano portato ad odiare il settore musicale, ho pensato di autoprodurmi e fare tutti con i miei tempi e i miei modi, senza sentire la pressione esterna che poi porta a bloccarmi sul lato artistico. Così, ho trovato delle figure con cui instaurare questo tipo di rapporto ed è iniziato questo progetto autofinanziato che ci ha portato ora all’album.



A differenza di "Latte di soia", dal punto di vista musicale il nuovo disco abbandona quasi del tutto le sonorità elettroniche per abbracciare una varietà di strumenti tra cui spiccano le chitarre elettriche e le sezioni orchestrali. Come mai questo cambio di rotta? Ci sono stati ascolti che ti hanno maggiormente influenzato nel processo di scrittura dell’album?

Negli ultimi anni ho ascoltato principalmente cantautorato italiano anni 70, 80 e 90, tra gli ultimi Brunori, che mi ha sempre accompagnato negli ascolti. Volendo fare un secondo album ho optato per questi arrangiamenti più suonati e acustici perché mi sembravano più sinceri per trasmettere il messaggio dei brani. Fiati, archi, tante chitarre e meno sound elettronico. Mi piaceva e lo sentivo più mio, in linea con questa fase della mia vita. Per chi mi conosce potrebbe anche stonare un po', perché sono stato conosciuto per il sound elettronico, i synth, l’elettropop… mentre ora in questo album la sonorità è completamente diversa, potrebbe anche spiazzare l'ascoltatore, ma si ritorna un po' lì: a parte il vestito che dai ad un brano, se è scritto con un determinato intento, con sincerità, credo che arrivi in ogni caso. Probabilmente tra sei mesi o un anno avrò di nuovo cambiato idea e tornerò a fare arrangiamenti più elettronici, già ora sto lavorando su una cosa che dovrebbe uscire postuma all’album e per cui mi sono ributtato sul sound elettronico.


"Le cose da dire" è il brano che apre il disco, un flusso di ultime parole, frasi non dette, momenti difficili in cui, letteralmente, ci si perde nella grandezza dell'universo e degli eventi "perdendo le cose da dire". Un brano molto potente, con immagini evocative di momenti che ognuno di noi può essersi ritrovato a vivere. Com'è nato? Tu come fai a non perdere la rotta nell’universo dentro di te? 

Ahah io la perdo continuamente e cerco di riagguantarmi giorno dopo giorno sempre, perché credo sia impossibile fare altrimenti. Sono molto labile e tendo molto a perdermi, per cui cerco di circondarmi di figure che riescono a farmi mantenere una certa rotta nei momenti di sbandamento, a cui mi posso appoggiare, da cui posso ricevere conforto. Non ho una grandissima stabilità, né emotiva né spesso di motivazione, mi entusiasmo e disentusiasmo allo stesso tempo. Cerco di circondarmi di persone che mi dicano "no, si è presa questa decisione, dobbiamo mantenerla", quindi non ho consigli per gli altri su come mantenere la rotta. Per quanto riguarda il brano, riflette proprio questo: spesso pensiamo talmente tante cose, in modi diversi e in tempi diversi, che ci troviamo poi a cambiare idea al punto da non ritrovare le parole per esprimere certi concetti, e ciò fa sì che il concetto si perda. La sensazione è la stessa provata durante la pandemia, costretti a stare da soli e parlare tramite macchine, e non attraverso un contatto diretto. Nel mio caso, stando in ospedale ho sempre lavorato, è stato meno traumatico rispetto agli altri perché continuavo a fare la mia vita, vedevo meno gli amici la sera ma durante il giorno avevo comunque i colleghi. Facendo il pendolare mi viene in mente la scena di me ogni mattina, in auto, sulla tratta che collega il mio paesino a Pisa; una superstrada su cui la mia era l'unica auto presente e la natura si stava riappropriando dello spazio a tal punto che un giorno in mezzo alla strada era pieno di galline. Faceva strano, sembrava un'ambientazione tipo "Io sono leggenda". Ed è così che è nato quel brano, racconta tante immagini di periodi che tutti possono aver vissuto, non dà risposte, ti pone delle domande e mette in canzone dei dubbi e pensieri che tutti abbiamo, per esorcizzarli anche. Ognuno ha un modo proprio, c’è chi scrive, chi balla, chi fa sport. Nel mio caso, per quanto cerchi di allontanarmene e staccare quando diventa troppo, comunque la tendenza è sempre quella di scrivere. 


"Io ti saluto così, con un pezzo che di te non è all'altezza, è solo un ultimo tentativo di farti una carezza". Così si chiude "Persefone", secondo brano in tracklist. Secondo te, la musica può essere un mezzo per riuscire a mettere un punto alle cose, superarle, una sorta di terapia per l’anima?

Sì, penso proprio di sì. Quel brano mi fa sempre male, infatti non lo sto più ascoltando perché rappresenta un lutto che forse per tanti può sembrare banale, ma per me no. Persefone è stata una compagna di vita spesso superiore agli umani; durante gli anni di medicina passavo 12 ore a studiare da solo in casa, e il principale contatto che avevo era con quella gatta. Si è formato un rapporto che è difficile da spiegare e non passa oltre le parole ma attraverso le intese, gli sguardi. Ti sembra di parlare il medesimo linguaggio anche senza comprenderlo. Purtroppo poi, mentre ero di turno in ospedale, si è allontanata da casa ed è stata investita. Non sono neanche riuscito a tornare a casa in tempo che i miei genitori l’avevano già seppellita, e questa cosa di non essere riuscito a darle l'ultimo saluto me lo sono portata dentro per tanto. Quella canzone è nata molto tempo dopo, avevo bisogno di metabolizzare il non aver fatto in tempo a vederla un'ultima volta, quindi ho preso la chitarra e ho scritto di getto, e nello scrivere sì, mi è sembrato di chiudere e mettere un punto a quel dolore che era rimasto un po' sospeso e che devi imparare a lasciare andare, a un certo punto. Ognuno ha un modo personale per farcela, nel mio caso è stato terapeutico scrivere, oltre ad essere stato un tentativo di dire grazie a Persefone di esserci stata, cosa che non si fa mai abbastanza. 


Attualmente lavori come psichiatra in un istituto penitenziario. L'esperienza lavorativa influisce anche nella tua produzione musicale o sono due strade che cerchi di tenere ben distinte?

Nel mio caso, se si tratta di dire le storie che senti e che ti vengono raccontate a lavoro per poi metterle in musica, no. Come dicevo prima, utilizzo la scrittura molto come terapia personale, rispetto a grandi cantautori italiani che erano capaci di mettere in musica le storie degli altri, cosa ancora più difficile da fare se ci pensi, immedesimarsi nei sentimenti e nelle situazioni che non sono proprie. Io solitamente utilizzo la musica e le canzoni per raccontare cose mie personali ed esorcizzarle. Però sicuramente avendo a che fare con determinate esperienze quotidianamente, con il dolore degli altri, con i racconti e le malattie mentali, ci sono problematiche che ti restano dentro anche senza volerlo, e portandotele dentro ci sta che la tua scrittura sia intrisa anche di quello, anche se non direttamente correlata all'evento o alla storia personale di un altro. Impossibile scindere due vite o la personalità a tal punto, per quanto nel mio lavoro uno deve cercare di farlo per non portarsi i problemi a casa.



"A trent'anni" è il primo singolo reso disponibile sulle piattaforme; il leitmotiv relazionale, e di riflessione a tratti esistenziale, quasi non ci fa rendere conto dei 5 anni passati da “Latte di soia” e dai vent'anni di Anna. Da una parte ti ritroviamo ora, a trent'anni, in una cameretta vuota a scrivere, dall’altra cantavi di una generazione di finti sognatori che volevano cambiare una triste realtà. Nonostante il tempo trascorso, vorresti "chiedere al tempo di tornare indietro un po'" anche ora?

Sì, io non tendo mai a vivere nel presente, quindi o vivo nel passato, nella malinconia, nella nostalgia e nel ricordo, o vivo nell’ansia del futuro. Non riesco mai a godermi a pieno il momento che sto vivendo, com'è stato anche durante il periodo di Postino e di "Latte di soia". Mi viene sempre di parlare di Postino in terza persona perché sembra quasi un alter ego, però quando lo vivevo lì per lì era con ansia, per la performance e delle aspettative degli altri. Quando è finito improvvisamente ci ho fatto pace e ho iniziato a viverla bene, col ricordo e la malinconia piacevole del riconoscere che sia stato un bel progetto e sia piaciuto anche ad altri. Ora si rientra di nuovo in quella dinamica in cui il nuovo disco mi genera l'ansia del nuovo disco, concerti e performance; è un momento che non mi godo mai, non vedo l'ora che finisca per poi poterlo rivivere con nostalgia. Vorrei tornare indietro nel tempo sì, o vorrei far passare velocemente le cose, è un po' una condanna anche se credo sia una sensazione che in molti provano, quella di non godersi mai a pieno il momento presente. “A trent'anni” è l’unico brano del disco che rimanda un po' più al vecchio album, anche come arrangiamento, ed è il motivo per cui l'ho fatto uscire prima, come un collante tra il prima e il dopo, verso la direzione in cui stiamo andando ora. Non è stato il primo brano che ho scritto, anzi, è abbastanza nel mezzo. In questo disco ci sono brani che ho scritto anche a 19 anni, come "Atarassia". Spesso scrivo e abbozzo brani che ripesco anni dopo perché magari lì per lì non mi piacciono o non mi sembrano adatti. L'ultimo brano scritto per questo disco è proprio “Nel buio”, gli altri invece sono nati tutti più o meno tre o quattro anni fa e riassestati nel mentre, sia a livello testuale che di musica.


Nel track-by-track ci ha colpito molto la descrizione di "Dimmi perché iniziare". A questo punto ti giriamo la domanda: se l'universo volge verso il grado massimo di disordine, perché ci ostiniamo a cercare la felicità? Questo ci rende tutti degli illusi o la felicità, anche se in piccole dosi, è necessaria all’uomo?

Il concetto di felicità è difficile da definire, è sfuggente e non è univoco per tutti. Il termine giusto secondo me è "contentezza", che viene da "accontentarsi": la felicità può essere colta in determinati attimi, millisecondi, senti quella sensazione ma il tempo di provarla ed già è passata, mentre la contentezza è uno stato di serenità. Perché continuiamo a fare cose, anche se ciò che facciamo volgerà ad uno stato ancora più incasinato? Perché tendiamo a questa sorta di ricerca di una serenità costante, l’obiettivo finale della vita. Per ognuno poi può essere diverso. Scrivendo quel brano ero in un momento di sconforto, anche se poi c'è un po' un ossimoro musicale dato che il brano suona allegro rispetto al testo. Questa irrazionalità che ci guida, non ha uno scopo e se vogliamo trovarlo noi l'unico forse è proprio la ricerca della serenità. Nella canzone non lo dico esplicitamente, perché è giusto poi che ognuno dia la propria interpretazione, ma secondo me sì, quello che possiamo fare per non arrenderci e vivere ogni giorno come una sconfitta è dire "okay, la felicità forse è troppo, mi accontento della serenità" e questo accontentarsi lo vedo in maniera positiva, anche se sembra un po' scoraggiante.


In "Atarassia", rivediamo nelle tue parole una condizione sociale purtroppo molto diffusa nelle nostre generazioni, specialmente tra i più giovani. Secondo te, quali sono i motivi scatenanti di questa indifferenza emotiva?

Domanda complessa, perché poi si entra nell'ambito della sociologia e dell'antropologia per capire. Di base c'è sempre una tendenza a lamentarsi del momento attuale e vedere il passato come migliore, la famosa sindrome della Belle Époque. Nel nostro caso specifico abbiamo una cosa che secondo me ci differenzia dalle altre generazioni, che è l'innovazione tecnologica; rispetto a ciò che c'era prima, entra all'interno delle relazioni interpersonali e le modifica. Un bambino di quattro o cinque anni di oggi il suo primo legame lo ha con un tablet, non con un'altra persona, impara a relazionarsi con una tecnologia come prima cosa e non con un essere umano. E noi ventenni o trentenni di oggi, con quel bambino troveremo difficoltà ad entrare in relazione perché parliamo due linguaggi differenti, e questa cosa è un cambiamento talmente netto rispetto agli anni passati da essere drammatico. Già con i nostri genitori sembra di non riuscire a capirsi, ora questa sensazione è peggiorata anche tra noi e chi è ancora più giovane. Essendo noi la generazione di mezzo, spesso viviamo in una sensazione di sconforto perché non ci sentiamo capiti né in un senso né nell’altro, siamo lì oscillanti. E spesso la risposta a questa sensazione di non comprensione è l'anestesia emotiva, chiudersi totalmente in sé stessi e anestetizzarsi, che sia con le sostanze, l'alcool, i fine settimana, le serate, lo scrolling online, tutto pur di non pensare a niente e non provare niente, perché non provare nulla è comunque meglio di provare dolore. Però, già il fatto di prenderne atto e mettersi davanti al problema permette di conoscersi e attuare determinati comportamenti per cambiare. Quel brano l'ho scritto in crisi a diciannove anni, prima dell’ingresso nei venti, e l’ho ripreso poi a ventinove prima dei trenta, durante una seconda crisi; secondo me si nota anche che è stato scritto in due epoche diverse, la prima parte più da ragazzo e la seconda sui problemi più "adulti". Alla fine credo sia un po' lo scopo della musica, non solo intrattenere, ma porre delle domande, far tornare l'ascoltatore parte attiva, ben venga che un brano lo faccia "star male" se ciò porta alla riflessione.


Nonostante la frustrazione nel finale di "La deriva", l'illusione da te cantata ci ha ricordato quella sensazione di libertà che si prova durante un concerto. Te il 28 febbraio 2024 ritornerai con 6 date in tour. Quanto tempo è passato dall'ultima volta e quanto sei emozionato all'idea di ritornare su un palco? È importante per te la dimensione del live?

È un problema,  nel senso che come persona sono abbastanza schivo e soffro il contatto con le persone, però ne ho fatto anche il mio lavoro, è un rapporto un po' di odi et amo. C'è chi è un animale da palco e non vede l'ora di fare live perché questa è la dimensione che lo rispecchia di più, io invece mi trovo di più nella dimensione della scrittura, da solo, in camera. Il live mi genera l'ansia della performance, dell'errore, faccio sempre molte prove perché non vorrei mai momenti in cui per forza sia costretto ad improvvisare, non mi viene naturale farlo. Il concerto mi mette in crisi ma è un elemento fondamentale, perché per chi ti ascolta è un momento per riunirsi a quei brani, all'artista, dà un volto e lo ricollega a un momento. Non ti ricordi mai del brano in sé, lo ricordi perché lo hai ascoltato in un determinato momento, con un determinato pensiero, ti ricordi di scene e concetti a cui poi il brano si lega, e questa è la motivazione per cui poi i concerti sono inscindibili dall'attività di scrittura. Poi in realtà lo faccio anche per me, uscire dalla comfort zone è un atto che è alla base del miglioramento: cerco di sforzarmi nel fare concerti per gli altri perché so che in primis fa bene anche a me, perché mi permette di uscire dalla mia zona di comfort e insomma, a livello antropologico l’uomo è andato avanti grazie a questo.


"Però noi possiamo andare dove vuoi, lì dove pensi di star bene, lo sai possiamo andarci insieme". In "Per non morire" ti offri come cucchiaino per un'altra persona, parlando delle difficoltà che si possono affrontare in momenti bui. Allo stesso modo in "Nel buio" scrivi "Mi salvo così, mi salvi così". Potremmo dire che la tua soluzione è riuscire a trovare nell'altro una soluzione per farcela insieme e "non affogare come un biscotto nel latte". Secondo te perché si cerca sempre un modo di condividere la propria solitudine con qualcun altro?

Questo secondo me è alla base dell'essere umano, siamo fatti per stare soli fino a un certo punto; ci sono stati tanti esperimenti, già dagli anni '60, per capire l'essere umano quanto potesse reggere da solo, ed è stato visto che periva molto precocemente. Di base siamo fatti per condividere e cresciamo soltanto nella condivisione. Una caratteristica fondamentale che abbiamo è la possibilità di creare rappresentazioni mentali, per cui tante persone possono avere il medesimo concetto mentale seppur espresso in maniera diversa o non presente nella realtà. Immaginare mondi e scenari diversi fa sì che l'uomo si possa evolvere, ma da solo non può esistere, non può crescere. La soluzione è stare insieme quando questo non è tossico e non danneggia entrambe le persone. Rispetto al passato si è un po' persa questa cosa qui dell'affrontare le cose in due, si pensa che da soli si può ottenere tutto, si pensa al successo personale, la competizione a scapito degli altri, e questo può funzionare a breve termine, ma a lungo termine no. Richiede sforzo, c'è un impegno costante a condividere con gli altri, credendo che assieme si possa far meglio, e ce ne siamo accorti anche durante la pandemia di quanto sia stato difficile stare separati, da soli. Poi ci sono individui che tollerano meglio la solitudine, ma secondo me non funziona nel lungo termine, non se si ritorna a quella ricerca della serenità. Tutto è un impegno nella vita, stare soli o stare insieme.


"Devi convincermi che se chiudo gli occhi il mondo resta li perché io non lo so". L'album si conclude con "Nel buio", brano in cui tu stesso cerchi un modo per non restare sopraffatto dall’universo. Quali sono le piccole cose che per te rischiariscono il buio?

La condivisione. Quella per me è una delle luci che possono illuminare le situazioni critiche, di oscurità. Quel brano è nato una notte, ero solo in casa, ho provato questo senso di oppressione dove mi sembrava improvvisamente che le cose più familiari non lo fossero più così tanto, avevo un senso di derealizzazione addosso. Esistiamo soltanto perché esistiamo per l’altro, noi come individui, se non ci fosse un altro a riconoscere la nostra identità e a dargli un valore, non esisteremmo. Esisti soltanto nel momento in cui c'è una relazione interpersonale con qualcuno, hai legami con altre persone e quindi la ricerca del legame ci accomuna tutti. Spesso si tratta poi di trovare dei legami saldi, dei legami che facciano bene a entrambi, che portano a crescere assieme o distruggersi assieme, e questo non è molto facile e ognuno ci sbatte la testa, ma siamo fatti per sbagliare anche imparando dagli errori anzi, sbagliare è la parte fondamentale del cammino, ti insegna cosa devi o non devi fare. Se cerchi di iperproteggere un individuo dallo sbaglio non fai altro che peggiorargli poi il cammino, come si può vedere anche in ambito genitoriale. 


Per concludere, com'è stato autoprodurre il disco? Hai incontrato particolari difficoltà nel farlo? 

Sì, e in parte me ne sono pentito. Economicamente è stato un parto, avevo stilato un budget pensando di poterci rientrare e invece la cifra è quasi raddoppiata, quindi mi sono ritrovato un po' in difficoltà e lì ritorna il discorso etichetta discografica: se ne trovi una che sposa il tuo pensiero, è la strada migliore. Ora mi sono organizzato così, ma nulla vieta che in futuro possa trovare qualcuno che sposi a pieno la mia idea di musica, i miei ritmi e fare un progetto assieme. In questo caso è andata così, è stato molto impegnativo anche da un punto di vista organizzativo personale, quando tu in prima persona devi coordinare tutta una serie di figure diventa complicato, diversamente avere qualcuno che lo faccia per te può essere sì motivo di dissidio, ma anche un alleggerimento delle problematiche, puoi concentrarti di più sul lato artistico e non su tutto il resto del business, che distraggono dal fare musica e basta. Secondo me ognuno deve trovare dei partner che condividano il proprio pensiero, altrimenti no, anche se non è semplice, soprattutto ora che il mercato è saturo e pieno di artisti che cercano di emergere, non c’è neanche più l’attenzione nell’ascoltare, si rischia facilmente di perdere valore.


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