Ad un anno dalla pubblicazione di "Crudi", lo scorso 8 novembre il cantautore Antonio Palumbo è tornato sulle scene musicali con "Che cosa dicono le canzoni", il suo nuovo EP composto da sette tracce e anticipato dal singolo "Stelle color latte".
Ex-membro dei Nebel, progetto neo-folk di inizio anni 2000 con all'attivo due dischi e diversi EP, la carriera solista di Antonio Palumbo è iniziata nel 2017 con la pubblicazione dell'EP autoprodotto "Altaguardia", per poi proseguire con il disco "How Fast We Live" del 2019 e il primo singolo in italiano "Tutto Qui", uscito nel 2020.
Dal 2022, con il brano "Portami", la carriera del cantautore ha iniziato ad intraprendere una nuova strada fatta di sperimentazioni sonore, nonostante una cifra melodica sempre riconoscibile. Il nuovo EP "Che cosa dicono le canzoni" si sposa alla perfezione con il nuovo percorso intrapreso da Palumbo, come dimostra il sound vario ed eterogeno che caratterizza le sette tracce del suo disco, prodotte insieme ad Edoardo Romano.
In occasione della pubblicazione di "Che cosa dicono le canzoni", ho avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con Antonio Palumbo per parlare della genesi di questo EP e di approfondire le sette le canzoni di questo lavoro qualitativamente e artisticamente molto interessante.
Ciao Antonio, benvenuto su IndieVision! Come stai? Come ti senti a qualche settimana di distanza dall’uscita del tuo nuovo EP "Che cosa dicono le canzoni"?
Sono contento del disco, contento che sia uscito, contento dei feedback che sto ricevendo. Sono arrivato a questa pubblicazione con aspettative bassissime, è stato importante anche solo il fatto di decidermi a fare uscire queste canzoni.
Parlando della genesi di questo tuo nuovo lavoro, vorrei citare le tue stesse parole in cui dici che: “ho iniziato a scrivere questi brani per vedere se ero ancora capace di farlo. Era un periodo in cui mi sembrava di non capire più la musica”. Volevo chiederti, come mai ti era venuto il dubbio di non essere più capace di scrivere canzoni?
Qual è stata la scintilla che ti ha fatto ritrovare la luce all’interno di questo tuo periodo no?
Non è tanto la capacità di fare musica, so che qualche pezzo carino ogni tanto mi viene fuori (rido): la mia era forse più una domanda a me stesso. Sono tanti anni che scrivo e suono, mi sono sempre mosso nel circuito indipendente e oggi è sempre più complesso, offerta altissima e domanda medio-bassa. Quindi ogni tanto un po’ di sconforto c’è, e mi dico forse non piacciono i miei pezzi, forse non piaccio io, forse sono troppo vecchio. Potrei trovare ragioni infinite…ma ora più che mai la musica è per me uno spazio di libertà. Quando mi allontano il richiamo poi è troppo forte, e ora sto imparando a liberarmi di tutti i preconcetti, i pregiudizi, le aspettative, e prendere la musica per quello che sa darmi.
Da un punto di vista testuale le sette tracce che compongono "Che cosa dicono le canzoni" toccano le tematiche più comuni che sorgono durante l’ingresso nell’età adulta, come la ricerca di un senso in ciò che si fa, la necessita di imparare a scendere a compromessi e di convivere con la mancanza e via dicendo. Quanto è importante per te mettere nelle canzoni che scrivi esperienze, emozioni che hai vissuto in prima persona?
Un po’ probabilmente è dovuto alla musica con cui mi sono formato, che ha sempre avuto l’approccio che nel mondo anglosassone è definito “confessional”.
Ho sempre attinto dalle mie esperienze, forse può essere limitante ma non ho ancora sviluppato quel tipo di immaginazione che ti fa inventare storie di sana pianta, invidio molto chi ha quel talento. Con questo disco però ho fatto qualche tentativo in più, anche solo di astrazione: possiamo dire che il 90% è vissuto e il 10% è scritto.
Musicalmente, così come testualmente, il disco è molto eterogeneo e spazia dall’elettronica, al synth-pop, al dream pop e al cantautorato, grazie anche all’aiuto in fase di produzione di Edoardo Romano. Volevo chiederti, quali influenze musicali e non hanno accompagnato la nascita di "Che cosa dicono le canzoni"?
Quanto è stato importante l’apporto di Edoardo Romano nel trovare il vestito giusto ad ogni traccia?
Non ho avuto influenze dirette, sicuramente arriva tutto dal mio inconscio. Però ho utilizzato un approccio diverso dal mio solito già in scrittura: forse solo un paio di pezzi sono nati con la chitarra, ho usato principalmente loop di batteria e giri di synth. Volevo giocare con colori per me nuovi, provando a mischiare le carte. Quando ho portato i demo da Edoardo poi sono letteralmente sbocciati. Edo non ha distrutto quasi niente di quanto c’era già, ha saputo leggere l’essenza dei brani e trovare soluzioni creative molto eleganti per portare tutto ad un altro livello sonoro e di arrangiamento. Il suo apporto è stato fondamentale, io mi limitavo ogni tanto a fargli sentire qualche pezzo che mi piaceva “Senti il basso di questo, senti la batteria di quest’altro”. Da Caroline Polachek a Fred Again a Cosmo agli XX a Maribou State a Washed Out.
Il disco è stato anticipato dal brano "Stelle color latte". Come mai hai scelto di pubblicare proprio questa canzone come singolo?
Questo brano è cresciuto lentamente dentro di me, ancora adesso mi fa effetto e sento che mi piace sempre di più. Ho scelto d’istinto, mi piaceva l’idea di uscire con una cosa molto diversa da quanto fatto fino ad ora. E poi racconta di un momento molto bello, legato in qualche modo a un luogo del cuore che per me è Ibiza.
"Che cosa dicono le canzoni" si apre con "Spengo la musica", la canzone manifesto di questo tuo EP. Volevo chiederti, com’è nato questo tuo brano?
Pensi che sia davvero possibile spegnere la musica?
La risposta alla fine è semplice: non si può. Lo dice il pezzo nelle sue contraddizioni: il testo è un po’ drammatico ma il sound è uptempo, quasi a suggerire che no, non si spegne niente.
Il brano è nato proprio sulla scia delle riflessioni di cui parlavo prima in merito al mio rapporto con la musica, mi è sembrato un bel modo per darmi delle risposte.
Il disco prosegue con "Non mi guardare", brano che richiama le classiche ballad romantiche anni ‘80 da cantare a squarciagola con le lacrime agli occhi. Secondo te, parafrasando il tuo testo, qual è l’amore che è come un’onda buona che ritorna?
“Non mi guardare” racconta di un amore che sta al di sopra di tutto, che come un elastico si tende e magari allontana chi è coinvolto. Non è sempre facile mantenere l’intimità in una relazione, a volte c’è bisogno di non essere guardati, appunto, di potersi sentire liberi. Ed è questo l’amore di cui chiedi, quello che ti lascia essere.
"Mario" è probabilmente il brano più intimo, malinconico e autobiografico dell’intero disco perché è dedicato a tuo padre, a tutte le domande che non sei mai riuscito a fargli. Parlando della tua storia, quanto è stato importante l’apporto dei tuoi genitori nell’inseguimento dei tuoi sogni da musicista?
Se avessi l’occasione, quale sarebbe la domanda che vorresti fare a tuo padre?
I miei genitori mi hanno sempre osservato da lontano, mai troppo coinvolti ma comunque sempre orgogliosi della mia musica. Mi hanno sempre lasciato fare, senza intromettersi.
A mio padre chiederei di venirmi a sentire dal vivo, cosa che ha fatto molto poco.
In "Proviamo così" parli delle difficoltà della vita che, però, vanno affrontate stingendo i denti e, soprattutto, contando sull’aiuto delle persone a noi più care e non avendo paura di provare e riprovare, nonostante la possibilità di sbagliare. Volevo chiederti, com’è nata questa canzone?
“Proviamo così” è stata la prima canzone che ho scritto per questo disco, e l’ho scritta alla chitarra, completamente diversa, quasi punk rock. Sono partito dal titolo, da quell’espressione che in quel momento per me suonava come un incoraggiamento: “dai, proviamoci”. Da lì poi ho esteso il ragionamento alla vita intera, provando e riprovando vestiti sonori diversi fino alla sua forma finale un po’ tardi ’90/primi ’00.
La protagonista di "Ho guidato tutta la notte" è la Luna, elemento che ritorna spesso in questo tuo EP e che, citando testualmente le tue parole, “rappresenta qualcosa di irraggiungibile”. Quanto è importante, secondo te, riuscire a prendere atto che nella vita ci saranno delle cose che mai si riusciranno a fare?
Qui scaliamo vette alte, che tentano di arrivare al significato della vita (risata). Accettare è una cosa molto saggia da fare, non è per niente facile però. Da una parte è anche bello immaginarsi senza limiti, ma ci vuole la giusta dose di realismo, ed è una conquista dell’età adulta. E, se raggiunta con serenità, fa sentire molto più liberi.
L'EP si chiude con "Davanti al mare", brano dalle atmosfere sognanti dove sembri voler dire agli ascoltatori di vivere il presente, lasciare andare il passato gettandolo nel mare e di tenersi strette le persone che si amano e ci amano.
Volevo chiederti, quant’è importante per te e la tua musica riuscire a vivere nel presente, senza pensare al passato?
Non sono una persona nostalgica, non mi rintano nel passato, piuttosto sono ansioso di futuro, voglio scoprire cosa c’è più avanti, controllare quello che ci sarà. E questo non è sempre un bene, anzi. Negli ultimi anni sono sempre più attratto da questa idea dello stare nel presente, e in questo ci sono cose che aiutano molto: lo yoga, la meditazione, fare musica.
Ora che è uscito "Che cosa dicono le canzoni", avrai modo di esibirti dal vivo in giro per l’Italia per spiegare al pubblico che non ti conosce e che ti conosce che cosa le canzoni dicono per te?
L’obiettivo è quello di suonare il più possibile e uscire dai confini milanesi, voglio che questo disco abbia una vita lunga. Saranno le persone che ascoltano, forse, a farmi capire a fine percorso che cosa dicono le canzoni.
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