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"Amundsen è un disco catartico che nasce come un piccolo medicinale" -Intervista a Leo Pari

Amundsen è il nuovo album di Leo Pari, un viaggio interiore di dieci tracce che prende il nome di un grande esploratore norvegese Roald Amundsen, famoso per le sue imprese in territori polari. A differenza di Amundsen, l’artista in questo album ha attraversato le parti più gelide del suo io, un percorso interiore che lo ha portato a parlare di argomenti scomodi che fino a qualche tempo fa, non riusciva a trovar le parole adatte per manifestarli.


Un album coraggioso che non segue nessuna logica di mercato, ma estremamente sincero tanto da percepire attraverso la sua voce, le varie tratte del suo cammino. E’ un album catartico che nasce come un "piccolo medicinale" che ha provato l’artista stesso e che spera che possa far bene anche al suo pubblico.


Il tuo nuovo album Amundsen prende il nome di un personaggio storico Roald Amundsen, famoso per le sue imprese in territori polari. Rispetto a lui il tuo è stato un viaggio interiore che ha attraversato le parti più gelide del tuo Io. Cosa sei riuscito ad affrontare in questo viaggio?

C’è stata una vera e propria esplorazione come suggerisce il titolo dell’album. Sono andato a sondare dei territori della mia personalità abbastanza sconosciuti. Ho trattato di argomenti che per qualche motivo evitavo di affrontare. Ad esempio la scomparsa di mio padre nel brano “Un anno freddo” che risale ormai a 13 anni fa, ci ho messo tanto ad interiorizzare questa grave perdita per trovare le parole adatte. Così come poi ho parlato anche di mia madre che invece purtroppo è affetta da Alzheimer in “Roma est”. Argomenti che sono un po’ un taboo nelle canzoni pop. Ho cercato di andare a parlare di cose che possono essere difficili, dolorose e anche scomode, ma credo che siano estremamente pop, con le quali tantissima gente si ritrova purtroppo a convivere ogni giorno. Quindi mi interessava parlare di qualcosa che fosse un pochino oltre la solita canzone d’amore.


Ti sei dato coraggio attraverso questo album?

Si, perché è un album catartico che nasce come un piccolo medicinale che ho provato a preparare per me stesso, in primis. Ho visto che somministrandomelo in qualche modo mi faceva bene e ho pensato che potesse far bene anche agli altri. Per esempio in “Giorni no” parlo di disturbi umorali e degli eccessi d’ira in quelle giornate in cui va tutto storto, senza una vera ragione. Ho cercato di descrivere esattamente come mi sento io quando ho questo tipo di giornate e ho pensato che molte persone potessero rispecchiarsi in questa canzone. Questo è un disco anche terapeutico.


Ti sei sentito libero a scrivere questo album?

Mi sono sentito estremamente libero a fare questo album, perché pur trattando di argomenti più complessi, mi sono preso la libertà di non seguire queste dinamiche dello streaming, del singolo allegro, veloce e radiofonico. Non mi sono fatto nessun problema a fare brani lunghi oppure dire delle frasi scomode. Ce ne è bisogno in questo periodo visto il piattume abbastanza evidente della proposta musicale. Escono canzoni clone di altre e artisti cloni di altri, questo non fa bene alla musica italiana.


In Amundsen canti “Io non ho paura di andare ma mi spaventa di non lasciare niente a queste generazioni che non sanno amare”. Secondo te cosa dovrebbero fare le nuove generazioni per acquisire una maggiore sensibilità nei confronti dei sentimenti?

Iniziarsi ad aprire, iniziare ad essere sinceri con se stessi, in primis. Quello a cui mi riferisco in questa precisa frase è la superficialità che vedo in queste nuove generazioni nell’affrontare la musica. Anche chi si affaccia a questo lavoro, a questo mestiere, perché è un mestiere, come il calzolaio, il falegname. Spesso vedo che non c’è amore. Si deve finire la canzone nel pomeriggio stesso in cui c’è la session di scrittura, senza una lettura profonda del pezzo. Si cerca più la velocità che la profondità. Si cerca una via facile e carina con l’illusione che possa funzionare di più. Dico: “Generazioni amare che non sanno amare”, intendo dire che non sanno amare ciò che fanno, non sono devoti alla propria missione che è quella di dire una cosa che non si era ancora sentita prima, secondo me. Quello che sta mancando in questo momento è la passione, la determinazione e l’amore passionale per il lavoro che si fa.


Ci sono giovani artisti che apprezzi?

Assolutamente si. Ho avuto l’occasione di lavorare insieme a Galeffi nel suo ultimo album “Belvedere”, in cui abbiamo scritto quattro canzoni insieme. Anche lì abbiamo cercato di andare ad approfondire la raffinatezza del sound in alcune canzoni, come “Dolcevita”,

cercando di essere più originali a livello sonoro con giri di accordi più particolari. E’ un brano che cambia tonalità, cosa che non succede quasi mai nelle canzoni di oggi. La maggior parte delle canzoni che sento, soprattutto dei ragazzi, sono su un unico giro armonico che si ripete all’infinito, sul quale viene scritta la strofa, il bridge, il ritornello ed è fatta. Invece di cercare l’universale, bisognerebbe ricercare l’unico.


“Roma est” è una presa di coscienza del tempo che passa. C’è un qualcosa di te che è rimasta intatta con il passare degli anni?

La curiosità di conoscere quello che non so. E’ il mio maggior difetto ma anche la mia maggiore qualità. Mi obbliga ad essere un nerd su qualunque cosa. Anche nel mio lavoro non mi sono mai limitato a scrivere solamente la canzone con la chitarra e con il pianoforte, ma ho sempre dato grandissima importanza al sound. Per me le canzoni sono fatte di musica, parole e sound e nella ricerca di quest’ultimo ho imparato ad utilizzare strumenti che non sapevo usare, come alcuni sintetizzatori modulari, ho imparato ad usare i campionatori, software moderni. C’è ricerca, c’è voglia di andare a vedere le cose con più gradi di conoscenza.


Cosa diresti in questo momento a quel signore che ti guarda allo specchio?

Gli dico di continuare ad andare per la propria strada e di esserne convinto e andare avanti su un percorso sempre più personale e che cerchi di differenziarsi dal resto. Per cercare di essere originale ed unico.


Ci sono stati dei momenti di sconforto nel tuo percorso?

Assolutamente si, soprattutto quando cercavo di inseguire i numeri e il successo. Come tutti ho provato a raggiungere il grande pubblico attraverso la semplicità di alcune composizioni e l’orecchiabilità di alcune canzoni. Nello stesso “Stelle forever” ci sono dei brani abbastanza commerciali che in qualche modo potevano strizzare l’occhio ad un certo tipo di lettura molto semplice. Risentendole mi sono sentito un po’ omologato, in cerca di un brano da playlist e ci sono anche riuscito, infatti ci sono dei brani che sono stati su Indie Italia per parecchio tempo. Riflettendoci ma anche crescendo ho avuto modo di riflettere e dire: “Questa volta me ne voglio proprio fregare di questo tipo di dinamiche e cercare di fare un lavoro un po’ più complesso”. Per esempio “Amundsen” è un brano in cui inizio a cantare dopo un minuto, non seguendo le logiche del mercato eppure è finito in playlist, sono molto soddisfatto di questo.


In “Dormi” si fa riferimento alla guerra fredda e all’attuale guerra in Ucraina. Avresti mai pensato che nel 2023 si dovesse parlare ancora di guerra?

Io sono cresciuto negli anni 80 in piena guerra fredda quando c’era ancora il muro di Berlino, ma in realtà ne ho viste tanto di guerre e arrivati a questo punto ci si rende conto che non si è risolto niente e che non è cambiato nulla. Non ci siamo evoluti minimamente . Su questo voglio mettere i riflettori in “Dormi”, da qui agli anni 80 non è cambiato nulla, siamo rimasti in un mondo dove ancora non siamo riusciti a convivere e a mettere da parte gli interessi politici, e personali di alcune lobby di potere.



Quale è secondo te il ruolo dell’artista nel raccontare determinate situazioni?

L’artista è un po’ un campanello d’allarme. Ha questo dovere, oltre che piacere di far focalizzare su alcune dinamiche che magari sfuggono. Fa bene sempre risentirle anche messe in musica.


Nelle tue canzoni Roma rimane un punto di riferimento ben saldo. Cosa ti affascina di più di questa città e cosa invece cambieresti?

Io sono cresciuto a Roma in un quartiere abbastanza popolare come Garbatella e quindi sono legato a questa città a questi odori, a queste primavere anticipate e a questi inverni brevi. Anche la luce di Roma è particolare, c’è questo azzurro deciso. Questo sfondo vuoi o non vuoi influenza la mia musica e le mie parole. Ci sono tante cose che dovrebbero cambiare. Negli anni Roma sta subendo un processo di decadimento abbastanza evidente a tutti. Bisogna ripartire dagli spazi pubblici, dalle strade, spazi culturali nuovi, più festival, più cinema. Ci sarebbero tante cose da cambiare. Forse proprio questo suo aspetto di imperfezione in qualche modo affascina


Sia in “Amundsen” che in “Fenici” è presente il concetto “di fare i numeri”. In questo momento storico fare i numeri giusti è diventato quasi essenziale. Cosa pensi di questa continua ricerca del successo?

“Amundsen” e “Fenici” sono un po’ l’alfa e l’omega di questo disco, essendo la prima e l’ultima traccia, dove in fondo ci sono delle riflessioni simili. In “Amundsen” dico basta alla filosofia dei numeri, dell’apparire, della fama, dell’ambizione. La soluzione a tutto questo è “Fai quello che ami per sempre e non sbaglierai mai”, è una frase che rivolgo a me stesso,in primis. Visto che l’infelicità l’ho provata proprio nella ricerca di questi numeri. In Fenici invece nell’ultima strofa dice: “Vogliamo solamente fare i numeri, ma non importa quanto siamo stupidi e se alla fine i numeri siamo proprio noi”, quindi il discorso qui si amplia a tutte le persone che ad un certo punto sono in qualche modo succubi di questo sistema e arrivano addirittura ad arrendersi a questo tipo di logica, diventando dei numeri. Alla fine della canzone dico “Non ci importa di questo, l’importante è che ci diate qualcosa che ci possa far ridere e piangere, ossia che ci faccia sentire vivi”.


Pensi che questa continua ricerca del successo dipenda anche dalla velocità con cui vanno le cose ultimamente?

Si, però bisogna tener conto che queste veloci salite, possono riscendere altrettanto velocemente. Si tende solo a vedere la parte positiva dell’ascesa, sono tempi molto duri per gli artisti. A maggior ragione continuo ad invitare a ricercare una propria formula personale che magari si possa scostare da queste logiche, a costo di avere poco successo, magari all’inizio. L’importante è essere se stessi.


Secondo te in questo periodo si da meno importanza al live?

Più che altro c’è una mancata preparazione al live. Io ho visto live di artisti conosciuti con grandissimi numeri, che visti dal vivo offrivano uno spettacolo approssimativo e dilettantesco. Questo è un punto su cui si dovrebbe riflettere. Quando si arriva a fare una cosa, bisogna prepararsi e lavorare. Quello che manca spesso è lo spirito di sacrificio. Tutti vogliono tutto subito, però senza prepararsi. Poi ci sono realtà come i Pinguini Tattici Nucleari, che stanno avendo un grandissimo successo, assolutamente meritato. Loro sono un gruppo che parte dal live, un gruppo che suona e credo che questo abbia fatto la differenza, oltre alla piacevolezza del canzoni. Sono una band formata da sei amici che da sempre suonano insieme, che hanno un loro sound e che suonano bene. Sembra una cosa di cui meravigliarsi, ma in realtà dovrebbe essere la normalità.


Per ora ci sono solamente due date per ascoltare “Amundsen” live. Ci saranno altre date?

Per adesso ci sono queste due date primaverili: il 1 aprile a Roma al Monk e il 27 aprile a Milano all’Arci Bellezza, ma ci sarà anche un tour estivo.





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