"Onde" è il titolo del primo disco di Sealow, nome d’arte dell’artista romano Simone Patti, classe ’93. Si tratta di un album frutto di un lavoro durato due anni, fortemente ispirato alle sonorità afrobeat in cui Sealow è immerso da anni, rielaborate però alla luce di una scrittura che si avvicina al cantautorato italiano.
L'abbiamo incontrato per scambiare due chiacchiere nello studio Best Sound, a Milano.
Ciao Simone! Domanda di rito che però può essere utile per i nostri lettori: da dove arriva il nome Sealow?
A me hanno sempre chiamato Cello, sai, il soprannome che ti appioppano al liceo, che nemmeno ti scegli, e quando ho iniziato a fare musica con la crew di cui facevo parte, in un contesto di reggae e dancehall, il mio nome è rimasto quello. Poi un giorno abbiamo fatto un dubplate per questa crew giamaicana, Ward 21, e quando abbiamo mandato loro le informazioni, fra cui il mio nome, Cello appunto, loro lo hanno letto all’americana, e da lì è nato Sealow. Mi piaceva scriverlo così, perché ha la parola “mare” dentro.
Quindi ha una sorta di collegamento con il titolo del disco?
Sì, anche se in realtà non è un collegamento concreto. Il mare a cui mi riferisco io è più uno stato motivo: quello di perdizione, di fronte alla musica nel mio caso, quella perdizione che provi davanti ad un momento d’ispirazione o di contemplazione, nel mio caso sia che io stia producendo musica sia che la stia semplicemente ascoltando. È un po’ difficile spiegartelo perché è un concetto astratto.
So che questo disco è il frutto del lavoro di due anni: immagino che come artista avrai realizzato parecchie canzoni in un periodo così lungo, e che sarai anche cambiato come persona.
Sì, dentro al disco c’è di tutto. Ci sono pezzi che ho proprio scritto due anni fa e pezzi che invece ho scritto durante il lockdown, quindi questo lavoro racchiude un periodo molto lungo. Non ti dico però che ho fatto, che so, cinquanta pezzi per poi sceglierne solo undici. Non ho fatto un lavoro di produzione e scarto, ma ho preferito portarmi dietro alcuni pezzi e lavorare in maniera più approfondita su quelli, così da avere un concetto dietro che li accomunasse tutti. Sicuramente nel disco c’è il mio trasferimento da Roma a Milano, dove l’ho effettivamente scritto.
Com’è stato questo cambiamento?
Per me è stato come rinascere, perché venivo da un’esperienza traumatizzante a Roma, cose personali che mi hanno portato a vivere male quel contesto, nonostante ci fossi cresciuto avevo bisogno di cambiare aria in quel momento. Milano mi ha aiutato molto, soprattutto il posto in cui vivo, Tucidide.
Immagino che in quel contesto si respiri molta creatività, sia ricco di stimoli.
Beh, sì, è molto bello. Sei continuamente ispirato da quello che succede intorno a te, ci sono tantissime persone che stanno portando avanti un proprio progetto, che hanno piacere di condividerlo.
Tornando al tuo disco, “Onde”, ascoltandolo si sente chiaramente come ogni traccia sia la continuazione fluida di quella precedente, è un lavoro molto coerente.
Sì, anche da ascoltatore a me piace molto sentire quel tipo di coerenza nei dischi, pure quando è molto marcata, perché è una visione, un’idea. Non è una cosa che ho fatto a tavolino però. Io ho avuto la visione di avvicinare queste produzioni afropop ispirate alla wave nigeriana degli ultimi tre/quattro anni, che a livello di suoni sono perfettamente in linea con quello che ho sempre ascoltato, quindi la musica giamaicana, così come con le nuove tendenze musicali. Poi questo è il mio primo disco, ma in realtà faccio musica da un sacco di tempo quindi questi discorsi li porto con me da un bel po’. Il risultato mi sembra anche un disco molto versatile, che ti scorre mentre fai altro, durante un momento chill, ma ha anche la cassa dritta, quindi insomma, ti fa muovere. È ricco di molte sonorità diverse: prendi ad esempio “Todo el mundo”, l’ultima traccia, che segue una wave di liquid dub francese, che spacca un botto e sono molto contento di averla inserita.
Il tema dell’appropriazione culturale è molto vivo e acceso negli ultimi tempi. Tu sicuramente ti ispiri a una cultura lontana da quella del classico cantautorato italiano, cosa pensi al riguardo?
Se riesci a farti ponte, vivendoti e respirando una cultura, anche se lontana, allora probabilmente riuscirai ad avvicinarla anche a chi ti ascolta, senza fare marchette o importare cose forzatamente. È quello che spero di fare io. Non posso mettermi a scimmiottare quello che fanno gli altri, io cerco di farmi ponte, quindi per esempio su quei beat io scrivo come un cantautore, come piace scrivere a me, alla fine. Vorrei risultare la punta di un iceberg, di una cultura che a me affascina da sempre, che vivo da sempre e che voglio promuovere.
Com’è nata la collaborazione con Roy Paci?
Lui per me è sempre stato di grande ispirazione per il fatto che suonava con Manu Chao, quando ho visto per la prima volta su YouTube un loro live mi è esploso letteralmente il cervello. Mi è piaciuta tantissimo la possibilità di inserire la collaborazione con un musicista e sono soddisfatto di quello che ne è venuto fuori, perché si può parlare di un vero e proprio feat: c’è un minuto intero di Roy Paci. Lui è stato un grande, si è lasciato trasportare dall’atmosfera del pezzo, parole sue eh! Per me è stato molto emozionante poter averlo in un mio pezzo. Ancora non abbiamo avuto modo di vederci dal vivo per la questione Coronavirus, ma spero che succederà presto.
So che in passato hai scritto anche in inglese, mentre per questo disco hai scelto l’italiano. Com’è stato il passaggio? Quanto è diverso il modo di scrivere?
Quando ho ricominciato a prendere confidenza con la scrittura in italiano è stato bellissimo, perché essendo la mia lingua trovo una libertà maggiore. Sono stato ispirato da tutto quello che stava uscendo nel panorama musicale nazionale, mi piaceva molto l’idea di poter dire la mia.
C’è qualche artista italiano che ascolti?
A me piace citare Venerus, Frah Quintale, mi piace molto anche il percorso che ha fatto Willie Peyote, nonostante si distanzi un po’ da quello che faccio io.
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