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J.Cole: "The OFF - Season" - Recensione

L’esistenza di un’idea chiamata "The Off-Season" (nome preso in prestito dalla tradizione sportiva americana nella quale è presente un periodo di pausa tra le stagioni dove le squadre si preparano per la stagione successiva) era già stata annunciata in precedenza da J.Cole nella descrizione del videoclip e nell’artwork del freestyle "Album Of The Year", uscito nel 2018.



Un percorso variegato che lo ha portato, dopo varie fatiche, a quello che probabilmente possiamo considerare come l’album dell’anno. J.Cole viene da due dischi profondamente diversi tra loro: "KOD" era esagitato, mentre "Revenge Of The Dreamers III" era un atto comunitario con l’ampio respiro di tutti i dischi fatti di posse cuts.


La “features run”, ossia il suo impegno in una gran quantità di featuring tra il 2018 e il 2019 (culminato con Family And Loyalty dei Gang Starr), è stata un esperimento fuori dalla propria comfort zone per non morire con qualche rimorso.

In effetti le numerose collaborazioni (tra le quali quelle di Jay Rock, 21 Savage, Young Thug, Ty Dolla $ign) lo hanno portato a sperimentare un tipo di hip hop che si era già lasciato alle spalle.


Time change, niggas ain't rumbling no more Nah, what for? Hungry for more If you solo these vocals, listen close and you can hear grumbling (da "a m a r i")

The Off-Season invece è un ritorno all’hip hop profondamente personale del rapper tedesco-americano, un genere che lo aveva profondamente segnato e dato via alla sua brillante e soddisfacente carriera.

Si possono notare, all'interno del nuovo progetto, le evidenti affinità con "2014 Forest Hills Drive", considerato il suo miglior disco, nell’intimità delle riflessioni sul proprio percorso di vita.



Entrando nei particolari del disco, la prima traccia, "9 5 . s o u t h", si riferisce alla direzione di marcia sull’Interstatale 95 per partire da New York e arrivare a Fayetteville (NC), le due città in cui Cole si sente a casa.

Il rap storico di New York è l’influenza principale della musica di J.Cole e ricollega questo disco ai suoi primi lavori; il vero classico ispiratore di Cole è Nas, da cui prende la densa metrica riversata in "a p p l y i n g . p r e s s u r e".


Della Grande Mela si può anche notare il fumoso jazz rap (in pezzi come "l e t . g o . m y . h a n d" oppure "p u n c h i n ‘. t h e . c l o c k").

In rappresentanza della North Carolina ci sono invece i pezzi di passaggio tra il southern hip hop e la primissima trap; un esempio è la già citata "9 5 . s o u t h" ; non è raro che questi brani finiscano nel solco della trap più coraggiosa degli Stati Uniti. Il merito è di 21 Savage e di alcuni artisti (soprattutto Bas) della Dreamville Records (l’etichetta messa in piedi da J. Cole stesso nel 2007).

Anche in questo si riscontra la volontà di J.Cole di tracciare un filo tra le città che gli hanno dato una casa, nel costante lavoro di coinvolgimento e spinta degli artisti emergenti, anche in quello che dovrebbe essere un disco “personale”.


"I busted the trees, was barely strong enough to squeeze..Bullets traveled through leaves, it probably killed somebody randomly" (da "p u n c h i n ‘. t h e . c l o c k")

Allora viene da pensare che non sia poi così personale.

Dalla “features run” , forse, Cole è uscito cambiato. La sua lontananza dal rap dell’ostentazione della ricchezza è sempre stata palese; non che questo abbia mai comportato un problema per la sua musica. Non aveva alcun bisogno, in questo lavoro, di avvicinarsi allla “new school”, anche la più zarra ("1 0 0 . m i l ‘, i n t e r l u d e") e la più emotiva ("a m a r i").

Dall’altro lato, anche le larghe vedute sulla “black music” nella sua interezza non possono essere casuali.

Il ritornello di "m y . l i f e" è ripreso dal brano "The Life" del rapper (newyorkese, chiaramente) Styles P, cantato da Pharoahe Monch, screziate poi dal soul gli ultimi tre brani del disco:

"t h e . c l i m b . b a c k" e "c l o s e , h u n g e r . o n . h i l l s i d e".


Se J.Cole avesse voluto costruire un disco “comodo”, di sicuro non l’avrebbe incluso nel progetto della Fall Off Era e non avrebbe neanche provato a collegare New York e Fayetteville, definendo le identità delle due città attraverso la propria.

Teniamo conto di cosa significa “to fall off”: diminuire in qualità o quantità, in questo caso molto probabilmente riferito alla perdita di fama.

Sicuramente la catena di collaborazioni lo ha reso conosciuto, e gli ha costruito intorno un’aura di infallibilità nei featuring. Ma anche questo fa parte del suo piano, a quanto sembra. Non sappiamo dove stia andando la musica di J. Cole; di certo, un disco come The Off-Season riesce ad essere solido anche al di fuori del grande progetto.


Che poi possa condurre alla “fall-off”, alla caduta… È possibile, anche se ci auguriamo di no.



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