I Tramontana, in contrapposizione al loro nome, trasmettono un’ondata di calore umano al proprio pubblico con il nuovo album “Complicarsi la vita”, uscito il 2 dicembre per Pan Music. I loro pezzi, infatti, diventano un vero e proprio rifugio per chi si sente inadatto in mondo che spinge le persone verso la continua e morbosa ricerca della perfezione demonizzando gli errori e i fallimenti. Con il particolare risentimento assennato che solo la provincia sa regalare ai suoi abitanti, la band piemontese, tramite le otto tracce del disco, dà sfogo ai propri pensieri che sopra e sotto il palco si trasformano in un rito collettivo per esorcizzare le brutture della realtà. Sono proprio i live l’habitat ideale dei Tramontana che regalano ai loro fan un’incredibile unione tra songwriting e math rock, vicina all’indie rock italiano.
Ciao ragazzi! Partiamo dal titolo e dal concept del vostro ultimo lavoro: cosa spinge i Tramontana a “Complicarsi la vita?”
Ciao! Abbiamo pensato a questo titolo non appena ci siamo resi conto che dal momento in cui avevamo iniziato a scriverlo a quando ogni brano è diventato tangibile e ascoltabile erano passati addirittura tre anni… Abbiamo scritto canzoni cambiando totalmente ascolti, genere e approccio nella composizione, e questo ha decisamente allungato i tempi di lavorazione, spingendoci talvolta a chiederci se non ci stessimo davvero complicando troppo la vita…
Il brano che apre il disco, “Da quando è morta pietà”, lo dice il titolo stesso, racconta il momento successivo alla fine di questo sentimento, ma quali sono le cause principali del suo trapasso?
L’idea è che fondamentalmente per noi la pietà, intesa sia nel suo senso più classico che in una chiave moderna, sia un sentimento che purtroppo non trova più posto nella nostra società. L’individualismo quasi violento che ogni giorno ci si trova a vivere spinge gli esseri umani e cercare sempre la miglior performance e il successo obbligato, dimenticandosi spesso che però è anche grazie alle persone che abbiamo intorno che si costruisce questo successo, di qualsiasi natura esso sia.
Sia in “Wisconsin” che in “Senza svegliare nessuno” sembra che ci sia un desiderio di differenziarsi ed emancipazione dalla gente, dalla massa; ci parlate un po’ di questo aspetto che caratterizza i vostri brani?
Beh è un po’ una ricerca in contrapposizione a ciò che è sempre la società a chiederci. Di base non abbiamo nulla contro la gente, alla necessità di stare in mezzo ad essa, al sentirsi una parte del tutto, ma di fatto pensiamo che sia anche un diritto sacrosanto sentirsi fuori luogo, e perché no, pure un po’ tristi alle volte. Senza svegliare nessuno invece è un pezzo che parla più che alto del lasciare le persone quando si capisce che si potrebbero salvare così facendo, anziché allungarne la sofferenza.
La traccia finale, “Kawasaki”, è divisa in due volumi; da dove nasce l’esigenza di separare il pezzo in due parti?
Domanda a cui non avremmo mai voluto rispondere… Banalmente siamo stati spinti a farlo dal minutaggio del pezzo, anche se su disco, in formato fisico, abbiamo deciso di tenerla tutta insieme, le emozioni che trasmettono le due versioni sono profondamente diverse, e questo emerge soprattutto nel contesto live.
I vostri pezzi sono pregni di critica nei confronti del mondo che vi circonda; vedete i vostri testi più come una valvola di sfogo personale per dare voce ad una condizione di malessere o più come un modo per sollevare delle problematiche a livello collettivo? Le vostre canzoni sono più orientate verso l’interno o verso l’esterno?
Essendo persone molto emozionali prima di tutto i brani sono valvole di sfogo per noi stessi, dopodiché nel momento in cui vediamo qualcuno cantarle sotto al palco capiamo che ciò di cui parliamo è un sentimento condiviso, e questo è forse il miglior successo che si possa ottenere da un brano, nonché la dimostrazione che qualcosa di nato verso l’interno sta coinvolgendo anche qualcuno di esterno e quindi sollevando una questione quasi senza volerlo, o meglio cercarlo.
I Tramontana nascono dalle macerie di un progetto precedente; cosa vi portate dietro a livello sonoro da quell’esperienza?
Spereremmo nulla, perché abbiamo cercato di cambiare radicalmente ciò che eravamo in virtù di qualcosa che ci appartenesse di più, ma è innegabile che l’esperienza fatta in quei quattro o cinque anni è una parte profonda di noi stessi e un’esperienza che oggi ci permette di calcare il palco con molta più tranquillità e molta più voglia di fare casino.
Avete già quattro date in programma (2/12 Rockish Night Spazio 211 Torino-16/12 Vicolo Schilke Vercelli-14/01 Spazio Sulè Agrate Brianza-27/01 Arci Margot, Carmagnola (TO)), cosa dovrebbe aspettarsi chi non vi ha mai ascoltati dal vivo?
Le prime due sono stati due release party, uno per Torino, città che nell’ultimo anno ci ha dato davvero tanto, e uno per gli amici di casa nostra. In linea di massima noi sul palco cerchiamo sempre di dare tutto e dalla nostra prospettiva è difficile dire come possa essere da sotto al palco. Noi speriamo sempre di creare una situazione il più coinvolgente possibile appunto, per trasformare i nostri sentimenti personali in qualcosa di universale che non si potrebbe trasmettere in altro modo se non attraverso la dimensione live.
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