Il 20 maggio scorso è uscito "Belvedere" (Capitol Records/Universal Music Italy), terzo album in studio del cantautore romano Galeffi, nome d'arte di Marco Cantagalli. Dopo il successo dell'esordio nel 2017 con "Scudetto" e le conferme trovate con il successivo lavoro nel 2020, "Settebello", Galeffi ci presenta ora un disco variegato, ricco di suoni nuovi e tanta ricerca. La presenza di amici-colleghi come Emiliano Colasanti al management, Leo Pari nei testi e tanti altri, si unisce perfettamente alle vibes un po' francesi, un po' anni ‘70 e un po' alternative del giovane cantautore, affinando le produzioni ed armonie in uno stile unico e, com'è giusto sottolineare, sempre riconoscibile.
Ciao Marco e benvenuto su IndieVision! Come ti senti quest’oggi alla vigilia di "Belvedere"? Come hai vissuto i cambiamenti che ci sono stati a distanza di anni dagli esordi con "Scudetto", "Settebello", uscito due anni fa, ed ora "Belvedere"?
Ma in realtà bene, sono molto felice di questo. Ogni disco ha una storia a sé. "Scudetto" che è il primo, come ogni primo album quando lo scrivi, non sai neanche se poi diventa un disco o un lavoro vero. "Settebello" invece doveva essere, era ed è stato il disco della conferma, ma purtroppo è uscito in un momento brutto e complicato per me come per tutti e che ci ricorderemo per anni. Con la pandemia chiusi in casa per due anni è stato un periodo triste, lungo e in cui ho avuto tanto spazio e tanto tempo per mettermi in discussione di nuovo e con cui sono arrivato ora a "Belvedere", che penso sia il più bello tra i dischi che ho pubblicato fino ad ora, ma poi questo lo deciderà la gente.
Riguardo "Belvedere", nei tuoi ultimi post su Instagram tra le persone che hai taggato spesso spiccano all'occhio Emiliano Colasanti di 42 Records e Leo Pari; quanto è stata importante per te la loro presenza per la realizzazione del disco?
Con Leo Pari è nata un’amicizia durante una session; siamo entrambi autori, io per Universal e lui per Sugar, di canzoni per altri, per cui ci avevano organizzato questa sessione assieme in cui abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni che però non avevano un artista in mente a cui darle. E allora qualcuna di queste, magari venuta particolarmente bene, l'ho tenuta io per me. È stata una bella amicizia e una bellissima scoperta, come professionista e come amico, e per questo lo saluto e lo ringrazio. In realtà questa era una cosa che mi andava di fare perché sono molto ossessivo quando faccio i dischi, anche perché tra l’altro faccio praticamente tutto io fin dalle demo, magari mi aiuta mio fratello però insomma, la fase di scrittura, demo, pre-produzione, curo tutto il processo creativo su tutti i vari livelli. Per questo disco qui mi andava di condividere il lavoro perché comunque dopo 2 anni chiusi in casa da soli lavorare "con l’altro" mi faceva stare meglio, non ero così accentratore e mi andava di condividere la creazione e la scrittura con altre persone, e per qualche traccia è successo proprio questo. Per quanto riguarda Colasanti, i miei primi due dischi sono usciti per Maciste Dischi mentre in questo periodo di pandemia ho sfruttato il momento per cambiare un po' di carte in tavola, per cui adesso è nato questo nuovo rapporto con lui per il management (anche se “Belvedere” uscirà sotto Universal).
A proposito di cambiamento, "Divano nostalgia" è quasi un tango, e difatti è uno di quei brani in cui viene a pieno fuori quanto tu abbia sperimentato in questo album. Lo stile "alla Galeffi" si riconosce sempre, ma con qualche sfaccettatura in più che decisamente impreziosisce il progetto. Volevo chiederti di parlarmi un po' del tuo percorso in tal senso, in particolare per il passaggio da Maciste Dischi a Capitol Records. Come ti sei trovato a vivere questo cambiamento?
Diciamo che separo le due cose, non è che essendo passato in Universal ho cambiato il processo creativo, le canzoni ne avevo pronte molte anche prima di fare tutti questi cambi di squadra, di team, e già da un po' di mesi. Poi semplicemente è successo, si sono fatte altre considerazioni in materia di contratti e così via. Io credo che semplicemente evolversi sia naturale, almeno per uno come me cambiare è una necessità senza ovviamente perdere di vista quello che dici anche tu sul "ti si riconosce sempre", senza cambiare quello e la propria identità, che potrebbe essere anche il modo un po' che ho io di scrivere le parole o le immagini che posso dare. Però mi piaceva fare uno step superiore sotto tutti i punti di vista, quindi a livello di arrangiamenti, di armonia, di produzione e anche di estetica. È stata una sfida che penso di aver vinto, il disco è molto molto vario, ci sono sia canzoni da accendino sia canzoni per piangere sia canzoni per sorridere, canzoni da ascoltare quando passeggi al mare, canzoni cittadine… è un disco abbastanza variegato, avevo tante canzoni, ho scritto tanto e ho potuto fare la scelta di mettere un po' tutti i vari vestiti che io ora indosso a livello musicale, facendo una bella selezione. Mi dispiace per quelle che non sono entrate nel disco ma sicuramente rientreranno in altre pubblicazioni future, mi auguro.
La varietà dell'album effettivamente si riscontra in moltissimi brani, per esempio "Dolcevita" ha una strumentale molto anni ‘80, il connubio tra synth ed archi è davvero bello e funziona particolarmente bene. Parlandone anche con altri in redazione ci ha ricordato molto un mood sanremese di altri tempi. Mentre le sonorità di "Due girasoli" e di "Un sogno" mi hanno ricordato dei valzer. Come mai questa scelta musicale lontana dalle sonorità dei giorni nostri? Quant'è importante per te trovare il vestito sonoro giusto, anche se lontano dalla musica contemporanea, per le tue canzoni?
A me piace tantissimo la musica vecchia, adesso trovo davvero pochissime cose interessanti e anche quelle che lo sono in qualche maniera comunque rivisitano il periodo anni '60-'70 che a livello musicale è stato un periodo d'oro, la Golden Age della musica. "Dolcevita" può essere assimilata agli anni '80 ma più che altro per i synth, più che anni '80 (anche se lo capisco e ci può stare come catalogazione), la verità è che quel brano riprende molto la french touch, Sébastien Tellier e anche un po' i Phoenix, quel modo di fare pop-rock francese un po' alternativo con i sintetizzatori analogici. Abbiamo usato una strumentazione originale degli anni '60 quindi è molto più vintage di quello che può sembrare, è una canzone molto più anni ‘70, sia per gli strumenti che per le armonie; scomponi la canzone, togli determinate cose ed è un pezzo cantautorale, la strofa fa molto scuola genovese. Per i valzer io sono malato per Yann Tiersen e per tutta la musica francese e ovviamente il valzer è l'emblema di una certa proposta musicale, così ho pensato che fosse il momento di far uscire il mio lato un po’ francese (ride, ndr). E poi sono innamorato dei valzer, da vecchietto quale sono.
In "Asteroide" riprendi la metafora del piccolo principe, in una ballad molto notturna e intima. Fino a che punto, secondo te, è giusto aspettare qualcuno? L’attesa per te è un qualcosa da vivere con positività o che a lungo andare può essere deleteria?
È un'ottima domanda, quasi filosofica, ma la risposta ancora non l'abbiamo secondo me. Io ti posso dire come la vivo o penso di viverla, ossia che è un'attesa, quella di cui parlo in "Asteroide" in riferimento alla storia de "Il piccolo principe", ma attualizzandola, umanizzandola. È quasi un'attesa nostalgica, un'attesa che non si stabilisce nel testo a livello lirico, e non si capisce se è un'attesa reale o un'attesa che immagina il protagonista. Il posto in cui vive questo protagonista che attende è comunque l’universo in cui spazio e tempo hanno valori relativi, non è un'attesa terrena in quel contesto. Poi l'attesa nostra, delle persone normali come me e te, in riferimento all'amore ha più fasi: ce n'è una passiva ed una attiva. Io cerco sempre nei limiti della malinconia e della nostalgia di godermi il presente e tutto quello che viene di bello di prenderlo, poi non sempre è facile e non sempre ci riesco ma anche se aspetto comunque le cose le faccio. Se uno aspettasse e basta non funziona, nessuno ti viene a cercare, comunque le cose te le devi prendere o devi fare in modo che accadano, sia nell'attesa che senza. Poi magari te stai in un momento in cui ti aspetti questo o quello, ma se devi solo aspettare è come stare in galera, non ha senso.
In "Cinema fantasia" ad un certo punto dici "la radio passa una canzone che sembra parlare di noi due". Il tuo modo di raccontare le relazioni, l'amore e gli stati d’animo che si vivono in quei momenti ti rendono davvero molto vicino ai tuoi ascoltatori, perché lo fai in maniera reale, delicata come ci si sente effettivamente in quei momenti. Il fatto che molte persone possano ritrovarsi nei tuoi testi, come ti fa sentire?
Felice, perché quando ti senti compreso nella vita, accettato, in qualche maniera senti che non sei solo. Sapere che le persone si rivedono in quello che ho provato io, magari in quante volte ho pianto per riuscire a scrivere quella frase lì davvero mi sento meno solo. E questo è anche uno dei motivi per cui di solito si scrivono le canzoni (ride, ndr).
Invece cosa intendi quando in "Leggermente" dici "questa vita ci fa morire di felicità"?
Quella canzone l'ho scritta in un momento di estrema leggerezza, ovviamente è un po' un ossimoro perché ecco, quando uno è felice è esattamente il momento in cui vive quindi ho un po' giocato su questa cosa qui. Molto spesso la felicità è un momento e la cosa brutta è che certe volte magari quando la provi neanche te ne accorgi perché entri nel loop del quotidiano e non ti godi neanche quei momenti lì. E quando poi non te li godi finisci con il rimpiangere quei momenti e muori lì.
"Settebello" è stato un disco che hai realizzato per essere suonato in vinile e anche le sonorità di "Belvedere" si sposano alla perfezione con questo formato, quando ti è nata questa passione? Quant'è importante per te che la tua musica esca anche in formato fisico oltre che digitale?
È importantissimo, un po' perché io sono appassionato di vinili, sia a casa dei miei che a casa mia abbiamo giradischi e tante collezioni di vinili e dischi anche antichi, un po' perché comunque l'approccio fisico e carnale con l'artista, da fan di altri artisti, ci piace toccarlo con mano. Spotify sicuramente è comodo, ma è ovvio che non sia "reale", il vinile invece ti rimane. Magari Spotify tra 10 anni non esiste più, il vinile invece sai che c’è sempre e la musica è fatta per rimanere.
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