top of page

I 1789 raccontano il loro “Faro” nel mare della nostalgia - Intervista

Direttamente dalla scena romana degli anni ’10, a distanza di otto anni dal loro ultimo album “Voyages Extraordinaires” (Bomba Dischi), i SadSide Project ritornano in una nuova veste sonora, con una nuova lingua e con un nuovo nome letteralmente rivoluzionario.


I nuovi 1789 raccolgono tutta l’esperienza artistica di Gianluca Danaro e Domenico Migliaccio, ma arrivano ai fan di lunga data e al nuovo pubblico in maniera più diretta utilizzando suoni più violenti e viscerali, ma soprattutto l’italiano. All’interno del nuovo EP “Faro”, uscito l’11 gennaio per ICONA, i synth prendono il sopravvento spostando il sound del duo dal blues e dal garage all’emo e all’alt rock. Utilizzando riferimenti cinematografici anni ’70 e ’80, “Faro” fa i conti tra presente e passato cercando di trarre solo il meglio dall’ultimo.


Come è avvenuto il passaggio dai SadSide Project agli attuali 1789? Ci sono delle differenze tra i due progetti riguardo, oltre che la lingua e la musica, la scrittura dei brani?

G: Di solito 1789 è visto giustamente come un gruppo emergente, in realtà non proprio. Però è bello che ci dicono che siamo giovani. Grazie per la domanda perché è stato un periodo importante per noi. SadSide Project è un progetto durato circa dieci anni. Sicuramente c’è il discorso della lingua che ovviamente è importantissimo. Abbiamo fatto questo cambiamento già dal 2017/18, cercavamo di suonare e cambiare dall’inglese all’italiano perché mi trovavo meglio ad esprimermi. Era semplicemente più diretto il discorso, sentivo che le parole, il concetto e l’immaginario arrivassero prima ovviamente. Poi cantiamo in italiano perché viviamo in Italia e il pubblico che ci ascolta per la maggior parte è italiano.


D: Ma anche suonando proprio, sentir cantare Gianluca in italiano, è diverso dall’inglese: mi arriva direttamente proprio mentre suono e sì, forse si capisce anche qualcosa in più.


G: è figa questa cosa perché, come dice giustamente Dodo, lui è stato un po’ il nostro primo pubblico dal nostro punto di vista: io cantavo e lui si rendeva conto dall’esterno di come funzionava la mia voce in italiano. Sembra scontato, ma in realtà la timbrica cambia totalmente come approccio al cantato nella lingua. È stato molto bello, molto interessante.

Anche dal punto di vista della sonorità, noi siamo nati come un gruppo emo con le influenze classiche d’oltreoceano come tutti i duo garage. Non puoi non dire subito The White Stripes, perché comunque è stata una grandissima ispirazione Jack White, ma anche i Black Keys, un sacco di gruppi. Facevamo garage rock blues, però, sia io che Domenico, veniamo da un background che non era solo blues quindi abbiamo iniziato ad inserire delle connotazioni diverse all’interno dei nostri brani: ci piacevano synth, ci piaceva un po’ allargare l’orizzonte strumentale e di conseguenza è cambiato anche il nostro suono andandosi a “bagnare” negli anni ’80 e in tutto ciò che è in quell’immaginario lì.


A tal proposito la traccia finale riprende un vostro precedente brano contenuto all’interno di “Winter Whales War”; qual è la connessione tra i due brani? Come mai avete fatto questa scelta?

G: In realtà ci sono due brani in una versione 2.0 di cui abbiamo sempre detto: “Chissà come sarebbe rifarli in italiano, rifarli con una nuova produzione? “. Abbiamo avuto l’opportunità di farlo e quindi lo abbiamo fatto. Uno era “EVA – 02” che è stato il primo singolo. È praticamente un copia e incolla con qualche variazione di “ The Same Old Story”, sempre contenuto nell’album che hai appena citato “Winter Whales War”. E poi c’è “1959” che adesso è diventato “L’ultima volta”, anche perché ICompany e Sony ci avrebbero menato se ci fossimo chiamati 1789 e avessimo chiamato un brano “1959” …Numeri all’otto. Il testo è stato fatto da Pietro Nicolaucich che è un nostro grande amico, illustratore dei nostri primi dischi. L’immaginario di questo pezzo per me è stato sempre una ballata. Mi è venuta l’ispirazione guardando “Ritorno al futuro”, l’ho immaginato come un brano che si sarebbe potuto sentire nel grande prom che c’è alla fine del primo “Ritorno al futuro”. Volevo fare proprio la ballata anni ’60, però l’ho sempre immaginato come un duetto. Siccome abbiamo sempre stimato tantissimo come artista Margherita Vicario e abbiamo avuto l’occasione di conoscerci perché siamo entrambi romani, con la famosa scena, ho chiesto a Margherita se avesse piacere a cantare. Tra l’altro è uno dei suoi brani nostri preferiti quindi lei si è fomentata subito, è stata sempre gentile e disponibile ed è nato questo pezzo.


Nel testo di “Alderaan” dite noi combatteremo insieme per l’avanguardia; cos’è per voi l’avanguardia? La scena alternativa all’interno della quale avete mosso i primi passi a livello musicale può essere definita avanguardista?

G: L’avanguardia è quello che vuoi tu fondamentalmente, per me è una cosa, per Domenico è un’altra. Preferirei che trovassi tu il senso e trovassi tu un immaginario a quella parola per cui ti svegli e combatti quotidianamente


Dato il tema di “Alderaan” l’avanguardia colma la nostalgia?

G: Volendo sì, “Alderaan” è un pezzo che, come tutto il fil rouge” di “Faro”, cerca di essere stimolante, vitale, di provare a togliere quel torpore che può derivare dalla depressione, da un sacco di traumi o da qualsiasi cosa di negativo possa subire una persona. È un tentativo di scrollarsi di dosso tutto questo e tornare a “combattere”.


D: In fondo “Alderaan” è un pianeta che non c’è più. Stiamo sfruttando proprio l’immagine di qualcosa, di una casa che non c’è più. Quindi qualcosa per cui bisogna andare necessariamente avanti, qualcosa da superare necessariamente. Mi sembra già forte da solo proprio il nome di “Alderaan”


G: è anche un discorso di non essere troppo legati al passato e a chiudersi in delle cose che non esistono più. È giusto non scollarsi troppo, dissociarsi, disunirsi troppo e vivere il presente, non chiudersi magari in un passato sovrastimato e reinterpretato da dei ricordi.


In “Dente del giudizio” cantate senza sangue non si fa mai niente di speciale; la stessa cosa vale per la musica dei 1798? Può nascere un vostro pezzo senza sofferenza?

G: Sì, non credo allo stereotipo dell’artista che deve soffrire per forza per scrivere musica o deve stare male. La musica non deriva solo da emozioni e sensazioni negative. Però, allo stesso tempo, anch’esse sono frutto e possono diventare ispirazioni per l’arte, ma non è una cosa univoca, ecco. Quella frase è diretta, non c’è molto da interpretare, in quel momento voglio dirti che se non muovi il culo fondamentalmente non succederà mai niente.


Tutti i brani di “Faro” mi sono sembrati collegati sia da un dialogo tra la voce narrante e un personaggio sia dal senso di distanza tra i due; è così?

C’è un fil rouge che parla ad un passato che non c’è più. Infatti, è anche una critica a me stesso, a noi. È un po’ il discorso di prima: la voce narrante parla ad un qualcosa che non c’è più e che quindi ti consiglia, attraverso le esperienze, di guardare dove sei adesso e di provare ad agire, ad alzarti e continuare a fare, non cancellando il passato, ma utilizzandolo e provando a far sì che sia le cose negative che quelle positive siano degli strumenti per poter vivere meglio.


Mi ha colpita la frase contenuta nel “l’ultima volta” Neanche il cinema ti salverà che sembra un po’ il riassunto di tutto l’EP ispirato al cinema anni ’70 e ’80…

G: È stato bravo Pietro. Quello è l’unico testo che non ho scritto io però ci siamo consultati bene, gli ho dato delle linee guida, però l’ha scritto tutto lui di sua mano e noi siamo molto molto contenti e soddisfatti. Però è vero, sì, non ho nulla da aggiungere, c’hai preso


Progetti per il futuro?

G: Suonare, suonare, suonare, suonare, suonare il più possibile. Noi siamo una band che trova la sua dimensione, in cui sorridiamo di più, in cui ci guardiamo e diciamo: “Sì, Domè sto proprio dove vojo esse adesso”, con le persone poche, medie, tante, nei locali con la birra vecchia del giorno prima che ti si attacca sotto i piedi e quell’odore un po’ umido e sudore da posto dove 250 persone ci entrano, però “a sardine” proprio, strette. Suonare lì per sempre e farlo più spesso possibile è il nostro progetto futuro


Quindi non puntate ai palazzetti?

G: Non abbiamo una velleità di architetti quindi i Palazzetti non li abbiamo mai fatti

D: C’è Palazzo però!

G: nel nostro gruppo il bassista si chiama Michele Palazzo…è l’unico palazzo che abbiamo per ora. Poi se facciamo qualche apertura nei palazzetti siamo felicissimi.

Comments


bottom of page